Battere un colpo

Dalla Rassegna stampa

Alessandro non avrebbe dovuto trovarsi in carcere. Forse nemmeno avrebbe dovuto entrarci. E invece la galera è stata l'epilogo di un'esistenza cupa e sofferta, come spesso lo sono le vite segnate dai disturbi mentali. I suoi erano stati catalogati come di "media gravità": scatti d'ira e un comportamento a volte violento, che i genitori, con i quali Alessandro aveva sempre vissuto, sopportavano in silenzio, mentre l'uomo era in cura presso i Servizi Territoriali.

Nel 2009 però - raccontano gli operatori di Ristretti Orizzonti che sono riusciti a ricostruire la storia - la già difficile vita di questo cinquantenne di Padova e della sua famiglia subisce una drammatica svolta. Alessandro, che è un operaio metalmeccanico, perde il lavoro. Viene iscritto nella "lista di mobilità", ma non riesce a trovare un altro impiego e la situazione precipita. Specialmente tra le mura domestiche, dove in mancanza di un'occupazione la quotidianità diventa giorno dopo giorno sempre più dura da gestire. Così i genitori dell'uomo, esausti, a gennaio decidono di chiamare la polizia. Il Gip del Tribunale di Padova "nell'ottica della tutela anche del reo" (reo, più che altro, di essere malato), decide la sua custodia in un "luogo di cura". Un reparto psichiatrico ospedaliero? Un Ospedale psichiatrico giudiziario? Sta di fatto che dopo alcuni mesi Alessandro finisce in carcere. Prima a Padova, poi dal 28 agosto scorso, a Udine: capolinea della sua vicenda giudiziaria e umana. Due giorni dopo, infatti, sarà trovato morto, impiccato con la cintura del suo compagno di cella. Alessandro Marehioro, però, era stato dichiarato incompatibile con il regime carcerario e pertanto in quella cella non avrebbe dovuto esserci. Il medico della struttura friulana aveva chiesto per lui un colloquio con lo psichiatra che si sarebbe tenuto di li a poco.

Lo stesso giorno, poche ore dopo il suicidio del metalmeccanico di Padova il 38 esimo dall'inizio dell'anno prendeva il via promossa dai radicali la "Grande battitura della speranza". Che contemporaneamente in decine di carceri italiane - da nord a sud, da Trento a Catania, passando per San Vittore e Poggioreale - ha visto per mezz'ora i detenuti battere con le stoviglie le sbarre delle proprie celle. Nulla di nuovo, si dirà, visto che tradizionalmente i reclusi si affidano a questa forma di protesta per richiamare l'attenzione sui propri bisogni e problemi. Stavolta però non si è trattato di semplice protesta, ma di un messaggio pacifico di speranza, appunto, lanciato in coro per squarciare col rumore il silenzio che avvolge queste "nuove catacombe della giustizia e della democrazia", come le ha definite Marco Pannella. Discariche umane e sociali dove fortunatamente, nonostante tutto, ancora ci si arma di speranza nella lotta all'illegalità di Stato.

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