Anno 1953: fu veramente legge truffa?

Dalla Rassegna stampa

Il dibattito politico torna ad accendere i suoi riflettori sulla riforma istituzionale. In particolar modo, come accade ciclicamente, appare centrale la discussione sulla legge elettorale. Perché l'argomento torna ad appassionarci? Semplice: perché non si tratta di sciogliere il nodo di un "tecnicismo", ma di capire quale forma vogliamo dare alla nostra vita politica: democratica o non democratica? Liberale o illiberale? Vogliamo proseguire con la vecchia e ampiamente sperimentata occupazione partitocratica dello Stato e del Parlamento? Oppure si può e si deve cambiare? In che modo? Si tratta, insomma, di valutare e di scegliere un sistema di voto che, nel bene o nel male, segnerà la fisionomia stessa del nostro assetto democratico. Infatti, il cosiddetto "porcellum", cioè l'attuale legge elettorale, ha mostrato tutti i suoi limiti e sono in tanti ad esserne consapevoli, fuori e dentro il Palazzo, compreso il ministro Calderoli che ne è stato l'estensore. Eppure, si rischia di fare peggio. C'è chi sta lavorando per tornare ai tempi della Prima Repubblica.

La scelta, dunque, oggi, è tra l'uninominale maggioritario (secco o a doppio turno) e il proporzionale con sbarramento. Certo, espresso in questo modo, il tema sembra astruso o astratto, ma non è così: la forma del sistema politico e la legge elettorale non sono "tecnicismi". Anzi, possono essere facilmente compresi dai cittadini come è stato dimostrato anche nei referendum del 1991, sulla preferenza unica, e nel 1993, per un sistema maggioritario diviso per collegi piccoli. Ma per capire meglio la questione è sicuramente utile fare un ulteriore passo indietro, andare a rivedere la storia, sfogliare l'album della nostra Repubblica e rinverdire la memoria rileggendo le pagine ingiallite degli anni Cinquanta. Ingiallite eppure sempre attuali. Il 1953, infatti, fu un anno cruciale: proprio in quel momento, la partitocrazia italiana prese il sopravvento su un'idea liberale e democratica dello Stato e delle istituzioni. E vinse. Fin dalla metà degli anni quaranta, cioè fin dai tempi dell'Assemblea costituente, vi è sempre stata una tenace resistenza da parte di singoli politici o di piccoli gruppi in difesa di un modello istituzionale anti-partitocratico, quindi con una visione dello Stato che non finisse piegata sotto il peso dell'occupazione dei partiti: pensiamo a Panfilo Gentile, a Maranini, a Luigi Einaudi.

Questi tentativi liberali, ancora oggi sostenuti dalla resistenza e dalla volontà dei cittadini, nascevano con lo scopo di arginare e impedire il diffondersi del Regime partitocratico nello Stato italiano. Una partitocrazia che Giorgio Almirante non si stancò mai di denunciare distinguendo lui stesso l'opposizione "al regime" dall'opposizione "di regime". C'è stato un momento, però, nella nostra storia repubblicana, in cui il piatto della bilancia politica, gravato dal peso della partitocrazia, finì inesorabilmente con il pendere dalla parte del potere fine a se stesso, cioè a favore di un regime dominato dai vertici e dalle segreterie di partito. Da quel momento, non fu più la stessa cosa. Perché la partitocrazia seppe vincere la propria sfida contro una visione liberale e democratica trasformando il nostro sistema politico in una partitocrazia. In altre parole, nel 1953 vi fu uno scontro tra "il senso dello Stato" e la "ragion di partito", che ha poi segnato tutta la storia d'Italia per i decenni successivi. In quel frangente, infatti, la partitocrazia sconfisse i suoi oppositori salendo e restando ben salda al potere. Il recente voto referendario di questa lunga tornata elettorale, non a caso, proprio su questo punto, ha delle analogie storiche con il 1953. Mi spiego meglio. Oggi come ieri, i cittadini italiani sì sono espressi con un voto che indica una volontà di cambiamento che prescinde dalle segreterie di partito, dalle appartenenze di parte o di partito. Anzi, la richiesta va in senso opposto, cioè verso la destrutturazione degli attuali assetti partitocratici di centro, di destra odi sinistra. Ma per andare dove? Questa è la domanda a cui una classe dirigente deve saper rispondere agendo di conseguenza. Per capirlo, bisogna leggere la storia. Il 1953 è l'anno in cui l'allora presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, tentò di riformare il sistema di voto in senso "maggioritario". Di conseguenza, la legge elettorale del 1953, che i suoi oppositori definirono "Legge truffa", fu una modifica della legge proporzionale che vigeva all'epoca e che risaliva al 1946. Inutile dire l'ostilità trasversale incontrata da De Gasperi per questa sua iniziativa. Non che mancassero le ragioni e le motivazioni di questa ferrea e dura battaglia ingaggiata, allora, anche dal Msi.

Però, a rivederla oggi, con il senno di poi, la cosiddetta "Legge truffa" appare come un modello di democrazia assai avanzata rispetto alle proposte odierne che vengono avanzate sui quotidiani e molto più liberal-democratico del sistema proporzionale "all'ungherese", proposto da Bersani, o del "porcellum", voluto nel 2005 dall'Udc di Casini e dalla Lega. Promulgata il 31 marzo 1953 (n. 148/1953), la "Legge truffa", composta da un singolo articolo, introdusse un premio di maggioranza che consisteva nell'assegnare il 65% dei seggi della Camera dei deputati alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse raggiunto il 50% più uno dei voti validi. Basti pensare che oggi, con il cosiddetto "porcellum" di Calderoli, si può attingere a un premio di maggioranza senza la necessità di avere la maggioranza assoluta dei voti. È sufficiente avere la maggioranza relativa. La situazione politica che stiamo vivendo, la crisi in atto e il responso delle urne referendarie rafforzano l'idea di costruire un "altro" terreno, un altro campo, diverso e alternativo al potere trasversale del sistema partitocratico. Centro, destra e sinistra insistono nello stesso campo di gioco, quello occupato dalle segreterie di partito, dai personalismi, dai verticismi, dall'illegalità, dalle spartizioni, dall'affarismo. E i cittadini hanno mandato un messaggio: chiaro e preciso. Ma i riflessi dei partiti rischiano di essere gli stessi del 1953. È il rischio paventato anche da Marco Pannella e dai Radicali che si battono per una Riforma uninominale e maggioritaria della legge elettorale. Proviamo, allora, a dare qualche ulteriore elemento storico: la "Legge truffa" venne proposta al Parlamento dall'allora ministro dell'Interno Mario Scelba e fu approvata solo con i voti della maggioranza, nonostante i forti dissensi manifestati dalle altre formazioni politiche di destra e sinistra. Vi furono grandi proteste contro la legge, sia per la procedura di approvazione che per il suo merito.

Basti pensare che lo stesso Pci, che aveva vissuto la nostra Carta costituzionale come un compromesso molto al ribasso rispetto a quello che effettivamente avrebbe voluto strappare alla Dc e alle forze laiche e liberali, improvvisamente, sulla scia di questa proposta di riforma della legge elettorale, cambiò completamente registro e cominciò a difendere a spada tratta la bellezza e la grandezza della Costituzione. Togliatti si mise alla testa di una tale salvaguardia della nostra Carta. Salvo poi negarla o piegarla a logiche partitocratiche. Quanto al merito, secondo gli oppositori, l'applicazione della riforma elettorale avrebbe introdotto una distorsione inaccettabile del responso elettorale. I fautori, invece, vedevano la possibilità di assicurare al Paese dei governi stabili. Al di là del giudizio che ciascuno può dare o può aver dato di quella riforma elettorale, voluta da De Gasperi, il 1953 resta come un momento storicamente ineludibile del nostro percorso repubblicano. Tanto sappiamo già come andò a finire e non si può tornare indietro per verificare come sarebbe andata se la storia avesse preso una piega diversa. Sappiamo che, nel tentativo di ottenere il premio di maggioranza, per le elezioni politiche del giugno 1953, la Democrazia Cristiana si apparentò con il Partito Socialista Democratico Italiano, il Partito Liberale Italiano, il Partito Repubblicano Italiano, la Sudtiroler Volkspartei e il Partito Sardo d'Azione.

Ma lo schieramento si fermò al 49,8% e, non avendo raggiunto il 50% più uno dei voti, non ebbe il premio di maggioranza. De Gasperi venne battuto e, da quel momento, cominciò il suo declino politico per aver perso la sua battaglia contro la partitocrazia. Il 31 luglio dell'anno successivo la legge fu abrogata. Da quel momento e fino ai nostri giorni, quel tipo di regime è sopravvissuto benissimo, è rimasto strutturalmente al potere. Ma il recente voto referendario può essere letto proprio come un messaggio dei cittadini alla partitocrazia imperante. Un avviso ai naviganti.

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