Addio shopping

Diciamocelo con franchezza, dunque: il consumismo è morto, o almeno moribondo. Nell'area dei paesi che più hanno celebrato i riti (e soprattutto i miti) del consumismo spira l'aria gelida della recessione. E' un termine scientifico, della scienza dell'economia, però pauroso da maneggiare. Ci dice che in quei paesi, tra cui è anche il nostro, 'nei prossimi anni avremo a disposizione molti meno beni di quanti eravamo abituati. E i nuovi astrologi - ché tali si stanno dimostrando gli economisti - ci avvertono che questa recessione non è un fenomeno transeunte, torneremo ai livelli di vita di ieri e dell'altro ieri tra molti anni, forse: c'è chi dice una decina, chi invece giura che saranno assai di più.
Il consumismo è il piacere delle cose non necessarie, ma la recessione toccherà anche il necessario, persino l'indispensabile. Non solo il nostro: i nostri figli difficilmente conseguiranno quella che era la doverosa aspirazione di noi genitori: cioè che ci avrebbero superati in fatto di benessere, di sicurezza, di agi. Quando la mia generazione si avviava alla maturità, questa aspirazione era normale, noi giovani sapevamo che avremmo vissuto un po' meglio dei nostri genitori. E infatti via via ci piovve addosso non un singolo beneficio (non un "benefit", comunque) ma una sicurezza onnicomprensiva, che garantiva a tutti trattamenti sociali, sanitari, assistenziali, culturali nuovi e insperati. L'arte dello "shopping" sostituì il modestissimo "fare la spesa", così oneroso per le famiglie. Potemmo comperarci un'automobile, avere il ' riscaldamento nelle case, lavare i piatti senza i geloni, indossare abiti anche eleganti dimenticandoci che, da ragazzi, avevamo spesso dovuto mettere roba usata e calzare pedalini dignitosamente rammendati dalle nostre madri laboriose, 'chine sull'ovetto di legno (lo ricordate?). Gogol non avrebbe potuto scrivere "Il cappotto" (senza rimpianti avremmo potuto buttar via un cappotto appena appena stropicciato). Infine arrivarono la televisione, l'elettronica, i gadget di Steve Jobs. Tutto questo sembra dover finire, quantomeno ridursi assai.
La gente è disorientata, spaurita. Questa gente si ritrova, però, sola. Fino all'altro ieri c'era chi predicava contro il consumismo dilagante, denunciava l'andazzo e ne mostrava ì lati negativi, lo indicava come causa prima di corruzione morale e di distorsione dei valori. Il consumismo era il padre dell'edonismo, distoglieva dalla contemplazione dello spirito. Mi pare che queste voci siano oggi un po' silenziose, non esultino per una vittoria che gli hanno spiattellato eventi ingovernabili e imprevedibili. L'asciutta freddezza della scienza economica non ha echi moralistici, è difficile oggi pensare di interpretare una recessione in termini di moralità. Ci furono tempi quando anche un disastro naturale veniva portato ad esempio dell'invisibile ma indiscutibile incombere di Dio sulla storia umana. Successe con il terremoto di Lisbona del 1755, che mise la parola fine all'ottimismo illuminista. Finora non ho sentito nessuna voce dirci che il disastro che si sta abbattendo sull'economia di princisbecco è un ammonimento della potenza se non della giustizia divina. E c'è qualcuno che crede davvero che il ritorno all'austerità, se non alla povertà, possa riportare in auge i valori dello spirito?
Alcuni seri studiosi, leggo, stanno rivalutando la "parsimonia" e la "paupertas", che furono le caratteristiche salienti dell'economia e della prisca società romana, quella dei Cincinnati pronti a lasciare la bure dell'aratro solo per impugnare la spada del legionario o far issare i fasci del console. Non mi pare di sentire qualcosa del genere. Anche perché i valori cosiddetti dello spirito non si costruiscono in un giorno o in una generazione, sono sedimenti culturali tracciabili solo nel percorso di una lunga storia condivisa: qualcosa che oggi non è per nulla all'orizzonte. I paesi emergenti, o anche già emersi, che con il loro dinamismo stanno sconvolgendo gli equilibri produttivi, sociali e politici mondiali, sono protesi a conquistare qualcuno dei beni consumistici (o quasi) di cui finora l'occidente ha avuto il monopolio. Al consumismo occidentale succede il consumismo all'orientale, dal quale verranno disgregate antiche culture, fedi e religioni con l'avvento, anche li, del laicismo (non della laicità).
Non è un caso che gli esponenti delle grandi religioni mondiali si incontrino con sempre maggior frequenza per stabilire come opporsi all'ondata della globalizzazione livellatrice. Incontri tra capi religiosi; mai, mi pare, con esponenti dei valori conculcati della democrazia, quelli che lottano non per l'occidente ma per l'instaurazione dei principi di libertà istituzionale, dei diritti umani come storicamente conquistati e acquisiti. Non ho certamente alcuna ricetta scientifica per rovesciare gli eventi. Ma a volte, per ripicca, mi verrebbe da esclamare: "Il consumismo è morto, viva il consumismo".
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