Abortisce in bagno, la regione Lazio apre un'indagine

Dalla Rassegna stampa

«Vergogna». «Scandaloso in un paese civile». «Sanità pubblica fuori legge». Non importa se sono passati quattro anni, la storia di Valentina, 28 anni, affetta da una anomalia genetica e lasciata da sola ad abortire nel bagno di un ospedale, fa rabbia come se fosse accaduta ieri. Valentina, sostenuta dalla Associazione Luca Coscioni e da Filomena Gallo, ora combatte la sua battaglia legale per accedere alla fecondazione assistita, nonostante la legge 40 che ancora rappresenta un ostacolo per le coppie affette da malattie genetiche ma non sterili. E però la storia di quell’aborto, al quinto mese, deciso perché il feto per via di quell’anomalia genetica «non aveva aspettative di vita», ha voluto raccontarla lo stesso. In poche ore la sua storia ha fatto il giro della rete. E forse stavolta non ci si fermerà all’indignazione.

«È una vicenda gravissima e anche se risale a quattro anni fa, ritengo che debba avere un seguito giudiziario o quanto meno essere oggetto di una indagine interna da parte della Regione Lazio», approfondisce le accuse Riccardo Agostini, consigliere del Pd e membro della commissione sanità del Lazio. «Se i fatti che Valentina e suo marito hanno raccontato fossero confermati, si configurerebbe per i medici, quanto meno, il reato di omissione di soccorso», osserva Agostini, convinto che «anche a distanza di tempo occorra fare chiarezza», perché «è inconcepibile che una legge dello Stato come la 194 non trovi applicazione in una struttura pubblica». La Regione Lazio, dunque, aprirà una indagine interna. E lo stesso ministero della Sanità fa sapere che chiederà alla Regione «quali azioni abbia preso volte ad accertare che nelle strutture sanitarie preposte sia assicurato l’espletamento delle procedure previste dalla legge 194». Mentre il presidente del Lazio Zingaretti rivendica: «Noi non ci siamo fatti cogliere impreparati sulla difesa e il rilancio della legge 194». Inconcepibile, ma quello che Valentina ha raccontato è ancora cronaca e rabbia di tutti i giorni. I medici, quasi tutti obiettori, l’attesa dell’unico disponibile per l’interruzione di gravidanza, l’assenza di sostegno psicologico.

«Non abbiamo denunciato l’ospedale semplicemente perché non avevamo la forza di intraprendere un percorso difficile e doloroso. Ma invece delle infermiere che continuavamo a chiamare, a un certo punto si sono presentati due personaggi con il Vangelo a dirci che stavamo commettendo un reato», hanno raccontato lei e suo marito. Assurdo. Tanto più che «l’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario dal compimento delle procedure dirette all’interruzione della gravidanza e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento», osservano Filomena Gallo dell’Associazione Luca Coscioni, Mario Puiatti, presidente dell’Aied, e Mirella Paracchini, vicepresidente della Federazione internazionale per l’aborto e la contraccezione: «Non escludiamo le azioni che il caso consiglia anche oggi dopo 4 anni, ma chiediamo immediatamente una assunzione di responsabilità da parte della politica». Quello che è accaduto a Valentina all’ospedale Pertini - avvertono -«non è un caso isolato» ma «fa emergere quanto accade in molti ospedali nel momento in cui si ricorre ad una interruzione volontaria di gravidanza». Proprio basandosi su dati e osservazioni forniti dalle Coscioni, dall’Aied e dalla Fiapac, il Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa ha da pochi giorni ufficialmente riconosciuto che l’Italia viola costantemente i diritti delle donne che intendono interrompere la gravidanza.

 

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