Welby, cosa abbiamo imparato

Sono ormai trascorsi cinque anni dal momento della morte di Pier Giorgio Welby. Il caso drammatico del militante radicale è rimasto nell'immaginario dell'opinione pubblica e, insieme alla vicenda di Eluana Englaro, è stato motivo di discussioni infinite e mai del tutto chiuse. A questi due casi, che presentano forti differenze, recentemente si è aggiunto l'episodio del suicidio assistito di Lucio Magri in Svizzera. In tal modo la recente cronaca ci ha presentato diversi modi di porre termine alla vita di una persona. In seguito alla tragica scomparsa di Eluana Englaro il Parlamento ha cominciato l'iter per l'approvazione di una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), alla quale ora manca solo l'ultimo passaggio parlamentare nell'aula del Senato.
La vicenda ultima di Lucio Magri è stata presto archiviata dai media sia perché il gesto in sé è stato fonte di generale sconcerto sia per lo squallore di queste cliniche svizzere che aiutano a morire anche persone fisicamente sane, basta che paghino. Al contrario, i casi Welby ed Englaro, pur nella loro diversità, continuano a interessare l'opinione pubblica. In questi anni si sono chiarite molte cose importanti che vanno al di là dei due casi specifici e che è utile ricordare.
La prima acquisizione veramente decisiva è che la quasi totalità della popolazione non «chiede di morire liberamente su richiesta», al contrario chiede di essere assistita in modo professionale e umano nella fase più fragile della sua esistenza. In altre parole, il momento finale della vita non è quello in cui si vuole rivendicare chissà quale autonomia. Non è a questo punto della vita che le persone vogliono far vedere "chi comanda". Al contrario, i momenti terminali sono quelli in cui più fortemente si rivela l'importanza di relazioni e legami affettivi di qualità.
La seconda acquisizione è che non esiste un "diritto di morire", come viene insistentemente e superficialmente affermato. Le discussioni etico-filosofiche e le sentenze della Corte Suprema americana come della Corte di giustizia europea hanno fatto piazza pulita di questo disumano e del tutto presunto diritto di morire. Se un diritto c'è, è quello di non subire accanimento terapeutico, di rifiutare le terapie sproporzionate alla propria condizione di malato. Ma non di vedersi dare la morte.
Qui ovviamente si apre lo spazio per discutere quando una terapia sia appropriata o meno, ma l'esito della riflessione non sarà mai l'affermazione di un diritto di morire. In terzo luogo, si è compreso la libertà umana non è una accetta che taglia indistintamente quello che le viene a tiro, e perciò slogan come «nessuno deve decidere per me» sono fuorvianti.
In realtà nessuno vuole decidere per altri, ma è il soggetto stesso, il malato che vive la sua libertà in un intreccio di autonomia, valori morali che qualificano la sua persona e relazioni umane che lo sostengono e che per lui sono preziose. Quindi la decisione autenticamente libera non è affermazione di un'autonomia arbitraria, ma un processo in cui svariati elementi concorrono verso la scelta del vero bene della persona.
Infine, ma non ultimo per importanza, abbiamo capito che è essenziale dare un sostegno concreto, assistenziale nel senso più ampio, alle persone e alle famiglie provate da situazioni particolarmente gravose. Il rispetto delle persone passa certamente attraverso il rifiuto dell'eutanasia e dell'accanimento terapeutico, ma passa pure per il concreto sostegno alla vita quotidiana dei malati in condizione terminale, delle persone dementi, di chi è in stato vegetativo. Su questi aspetti pratici si misura il livello di civiltà della nostra società, perciò non si deve fallire.
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