Uno scatto di civiltà per dire no ai carnefici

Il caso di Kate Omoregbe è l'ennesima dimostrazione che occorre avere una concezione del diritto internazionale e dei diritti umani che includa le disuguaglianze di genere rispetto a questioni fondamentali di sicurezza e di diritto alla vita. E già successo in casi di donne fuggite dal loro paese per non essere sottoposte a mutilazioni sessuali – una violenza e un attacco alla integrità fisica che non trova riconoscimento in concezioni del diritto letteralmente a misura di uomo/maschio.
Anche se non corresse il rischio di essere uccisa per essersi ribellata ad un matrimonio combinato e ad una conversione forzata, Kate dovrebbe poter trovare diritto d'asilo in un paese che, come l'Italia, si proclama rispettoso dei diritti umani e delle libertà individuali. Ancor più, appunto, se la sua vita è in pericolo Come donna, nel suo paese è in effetti una perseguitata politica. I rapporti uomo donna, il potere assoluto dei primi sulle seconde, e dei genitori sui figli, in particolare sulle figlie, possono essere altrettanto violenti di quelli scaturenti da una guerra civile.
Se uno Stato non è in grado di contrastarli ed anzi li avvalla, esplicitamente o implicitamente, fa effettivamente delle donne le vittime designate di una guerra civile scatenata dai loro stessi famigliari contro la loro libertà e integrità fisica. Nessun reato Kate possa aver commesso in Italia, per il quale ha comunque scontato la sua pena, può legittimarne la consegna ai suoi carcerieri e carnefici.
© 2011 La Repubblica. Tutti i diritti riservati
SU