La strategia dei boss contro il carcere duro

Dalla Rassegna stampa

Prego Dio che mi faccia sopportare tutto quello che è giusto sopportare» disse Binnu u tratturi quando nel 2006 dopo quarantatré annidi latitanzavenne portato al carcere di Terni per scontare la sua pena al 41 bis. Una frase banale, ma se a pronunciarla è Bernando Provenzano bisognafermarsi a riflettere su quanto i concetti di giustizia e sopportazione della pena riescano a essere oggettivi. u cosa può accadere quando il meccanismo non funziona, se chi sta scontando unapena j non la riconosce come legittima. All`arrivo di Bernardo Provenzano, tutti i detenuti reclusi a Terni rimasero in silenzio quasi stessero celebrando un rito di passaggio. Quel silenzio reverenziale significava: «Ci imponete le vostre regole, ma noi abbiamo le nostre». In questi giorni esce Ricatto allo Stato (Sperling & Kupfer), libro in cui SebastianoArdita riportale sue esperienze al DAP (Dipartimento dell`amministrazione penitenziaria) e fa una serie di valutazioni sull`impatto che il carcere duro ha avuto dal momento della sua prima introduzione sulla politica e sulla società civile italiana. Mostrando, una volta di più, come le carceri siano la cartina al tornasole del corretto funzionamento di uno stato democratico. Sebastiano Ardita è siciliano e nel 1992 a soli 25 anni, subito dopo le stragi di Capaci e via D`Amelio, inizia la sua carriera come pubblico ministero a Catania città avvelenata da una mafia potentissima. Nel 2002, arriva al DAP ed è lì che lo conosco, durante le mie ricerche sul carcere duro e sui detenuti condannati per mafia. Un uomo che riesce a resistere nonostante pressioni di ogni forma e forza, posto nel meccanismo più fragile e complesso per il contrasto alle mafie: il carcere. Ma facciamo un passo indietro per capire come nasce il 41 bis. Il carcere duro era già nei progetti di Giovanni Falcone quando accettò l`incarico all`Ufficio affari penali del ministero della Giustizia. Doveva essere uno strumento per impedire ai boss di continuare a comandare dal carcere. Un rimedio estremo, ma non in contrasto con i diritti umani e con i principi della nostra Costituzione. Il progetto, però, era solo una bozza al momento delle bombe di Capaci e via D`Amelio, e la sua prima applicazione fu dettata dalla necessità di reagire alla crisi profon- da e al profondo sconforto in cui l`Italia si trovò in seguito alle stragi del 1992. La legge accennava genericamente a «gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica» in presenza dei quali, il ministro di Grazia e Giustizia poteva sospendere il normale regime di detenzione e disporre il 41 bis. In concreto non esistevano, però, regole che delineassero il regime speciale; non restava quindi che rifarsi all`esperienza vissuta dal nostro Paese con la lotta al terrorismo negli anni Settanta. Vennero introdotte una serie di limitazioni che inasprivano la vita carceraria tra cui il divieto di telefonare e di parlare con altri detenuti, l`obbligo di controllo della corrispondenza, colloqui con familiari una volta al mese e per un`ora e l`abbassamento a due delle ore d`aria giornaliere. Vennero in pochissimo tempo riaperte le carceri sulle isole dell`Asinara e di Pianosa per i primi 369 detenuti per i quali era stato disposto il 41 bis. Quei primi mesi sulle isole, per i mafiosi, furono senz`altro duri e subito in Parlamento approdarono polemiche sulle possibili violazioni dei diritti umani. Al dicembre del 1992 risale una relazione di Amnesty International in cui venivano denunciati maltrattamenti di detenuti a Pianosa. Secondo Ardita, nella sua prima applicazione, il regime detentivo speciale non funzionava come avrebbe dovuto. Questo è il motivo per cui con la sua introduzione non solo le stragi non si fermarono, ma ve ne furono altre, più violente, in risposta ai provvedimenti presi dallo Stato. Dall`attentato del 14 maggio 1993 a Roma in via Ruggero Fauro, a quello in viadei Georgofili a Firenze, a quello in via Palestro a Milano: ecco il ricatto allo Stato. Qualche mese prima, a febbraio del 1993, i parenti dei detenuti al carcere duro di Pianosa avevano indirizzato al Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro una lettera-esposto in cui denunciavano le pessime condizioni che i loro congiunti pativano all`interno del penitenziario e le violenze che subivano. Chiedevano al Capo dello Stato di dimostrare la sua estraneità a quanto accadeva nelle isole. Ufficialmente nessuna risposta arrivò mai. E interessante soffermarsi sugli altri destinatari, inseriti per conoscenza in quel documento: il Papa, il vescovo di Firenze, Maurizio Costanzo. Ardita suggerisce l`ipotesi che quell`indirizzario fosse una sorta di victim list e che quella lettera-esposto avrebbe dovuto essere oggetto, colsenno dipoi, dimaggiore attenzione. Se questa lettera costituisse un avvertimento, se possa in- dívíduarsí un collegamento tra il suo contenuto e quanto poi sostenuto dal pentito Giovanni Brusca durante la deposizione al processo perlastragedivia dei Georgoffli, se e con quali esiti vi siano state trattative tra Stato e mafia sul Maxiprocesso e sul 41 bis, è affare importantissimo da decifrare e allo stesso tempo terreno scivoloso su cui muoversi, fino a che non ci saranno sentenze definitive che ricostruiscano quanto accadde in quella terribile, ulteriore, notte della Repubblica. Eppure lacomprensione di questo passaggio è cruciale per capire su quali fragili equilibri sia stata fondata la seconda Repubblica. E quanto scrive Ardita è fondamentale perché aiuta a comprendere come in realtà i governi succedutisi nel tempo non siano mai riusciti ad andare oltreilpiano dellarepressione, come non abbiano mai combattuto le mafie sull`unico terreno sul quale bisogna batterle: quello economico. Ciò richiederebbe una riforma complessiva del nostro ordinamento, che potrebbe e dovrebbe prendere le mosse da una grande riforma della giustizia, che non sia ostaggio delle basse esigenze del satrapo di turno, ma realizzazione dello spirito democratico proprio della nostra Costituzione. Il risultato, a quasi 20 anni dall`introduzione del41 bis, è che le conoscenze che oggi abbiamo sulle organizzazioni criminali italiane ci vengono anche da quegli anni di rodaggio, serviti a riconoscerle a studiarle a farle venire allo scoperto. Oggi il41 bis è il risultato delle continue modifiche apportate negli anni. È il frutto dell`impegno di persone come Sebastiano Ardita e Pietro Grasso, dal 2005 alla Direzione nazionale antimafia. E a quanti obiettano l`incostituzionalità di un regime detentivo emergenziale, rispondo chel`Italia è il Paese che ha le mafie più potenti del mondo e che è necessario che sul piatto della bilancia ci sia non solo la perdita della libertà personale, ma anche l`impossibilità di continuare a dare ordini mentre si sta scontando la pena. Qui però il dibattito deve necessariamente allargarsi allo stato delle carceri e della giustizia in Italia. I detenuti finiscono per avere in spregio le leggi democratiche del nostro Paese ritenendole prive di senso, perché disattese proprio nel luogo deputatoallalororieducazione, alla riabilitazione di chi ha sbagliato. È un'"emergenza prepotente che ci umilia davanti all`Europa", ha detto il Presidente Napolitano e due giorni fa, su richiesta dei Radicali, si è tenuta una seduta straordinaria del Senato sull`emergenza carceri, conclusasi con un nulla di fatto. Si fa estrema fatica a capire che prima di pensare allo strumento detentivo come reale deterrente per crimini futuri bisogna fare i conti con un sistema giudiziario prossimo al collasso: se non si vuole intraprendere la strada dell`amnistia, che almeno il Governo si impegni a proporre un`alternativa credibile e soprattutto concreta. Perché se lo Stato latita e la rieducazione fallisce, le mafie sono sempre lì, in agguato, attente a reclutare, approfittando delle incoerenze del sistema. Questo è lo sconfortante quadro del sistema penale italiano, troppo spesso obbligato ad assecondare, attraverso la detenzione, le paure che questo Governo fomenta verso i diversi, gli stranieri, gli emarginati. Il carcere come strumento di rieducazione e il carcere duro come possibilità di rendere acefali interi comparti delle organizzazioni criminali hanno senso solo se sono parte di unademocrazia compiuta, virtuosa e funzionante. Ma allo stato attuale non sono misure sufficienti, non bastano a scalfire il potere delle mafie che è, ribadisco, un potere economico. E Ricatto allo Stato è un tassello importante in questo dibattito. È lo scritto onesto di un uomo di Stato. E di onestà, mai come ora, l`Italia ha necessità pei evitare la tragedia più grande, quella di credere che vivere onestamente sia, in fondo, ormai cosa inutile.

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