La strada stretta (ma obbligata) di Italia e Europa

Dalla Rassegna stampa

Sui desiderata europei, trasparenti e spesso anche conclamati, non ci sono mai stati dubbi. Ora che Mario Monti ha deciso di gettare la spugna lo stupore si alterna ai timori su stabilità e futuro della terza economia dell'euro.

«L'Italia non è la Grecia» amava ripetere un alto esponente della Bundesbank al tempo dei negoziati di Maastricht. «Perché, se si muove in modo avventato, a differenza della Grecia, è in grado da sola di rovesciare la barca della moneta unica». Vent'anni dopo, quel giudizio che riassume il grande incubo europeo non deve rischiare di diventare una profezia. Per questo si respira tensione a Bruxelles e dintorni.
Mario Monti è una personalità molto apprezzata in Europa. E sui mercati: i sussulti di ieri, per certi versi fisiologici, sono stati eloquenti. Naturalmente nessuno nell'Unione a 27 può seriamente pensare di sottrarre i paesi membri al libero gioco della democrazia elettorale. Gli intermezzi tecnocratici non possono che avere una durata limitata.
Però la prospettiva di un rientro da protagonista di Silvio Berlusconi sulla scena politica manda in fibrillazione molte cancellerie. Non è il cambio della guardia a Roma a preoccupare. Ci mancherebbe. Si temono le divisioni e lacerazioni che hanno segnato quella stagione.

Preoccupa e molto, invece, il rischio di vedere interrotto il cammino di consolidamento dei conti pubblici, delle riforme strutturali in larga parte ancora da fare e del recupero di credibilità del paese. In breve, si teme di veder riapparire lo spettro dell'instabilità e insieme dell'evanescenza italiana. Che soltanto un Governo forte, scaturito da un chiaro ed inequivocabile mandato delle urne, è in grado di garantire. Agli occhi di Bruxelles il Pd di Pierluigi Bersani ha le carte in regola, a patto di neutralizzare l'ipoteca di alleati allergici all'agenda del rigore e delle riforme. E questo vale per chiunque, sinistra, centro o destra, offra queste garanzie.
L'Italia ha bisogno di Europa. Ma anche l'Europa ha bisogno di Italia. Di un interlocutore solido, serio e responsabile capace di mediare, se necessario, tra le sue molte asperità e mille contraddizioni. Soprattutto nei prossimi mesi nel corso del nuovo round di delicate riforme istituzionali che, prima o poi, dovrebbero sfociare in più integrazione e in nuove cessioni di sovranità nazionali su bilancio, riforme, politiche sociali e fiscali.

Già oggi del resto, sul filo delle ultime riforme anti-crisi che hanno rafforzato la governance dell'euro, i margini di manovra dei Governi sono molto limitati. I conti pubblici in equilibrio sono un traguardo obbligato. Come la riduzione del debito. Ancora non lo è ma presto lo diventerà anche il recupero di competitività globale attraverso impegni contrattuali vincolanti per le riforme strutturali. Patti e Trattati Ue a parte, ci pensano poi i mercati a mantenere la pressione per cambiamento e modernizzazione dei sistemi-paese, sanzionando in tempo reale i renitenti a disciplina e riforme.
Illusorio immaginare di cambiare il corso delle cose (a meno di non far saltare il tavolo). L'aveva promesso il socialista François Hollande, facendo della crescita economica europea il suo cavallo di battaglia elettorale per temperare la gelida stretta dell'austerità. Una volta all'Eliseo, la sua Francia si sta mettendo in riga sul modello tedesco senza grandi guizzi. Illusorio anche credere che un'eventuale vittoria in autunno della socialdemocrazia tedesca, magari alleata con i verdi, allenterebbe la morsa dell'austerità sull'euro-sud.
Sono due le molle che potrebbero indurre la Germania a diluire un po' la linea del rigore: la prova provata che, in dosi eccessive, contraddice i suoi obiettivi (come in Grecia, dove fa salire il debito invece di farlo scendere) e l'arrivo della recessione anche dentro i suoi confini.

In entrambi i casi l'austerità non sarà rimessa in discussione, perché ritenuta strumento necessario a carburare una crescita sostenibile. Però sarà finalmente ammortizzata da stimoli europei all'espansione economica, agli investimenti nell'industria, nell'innovazione, nelle infrastrutture, nell'energia.
Per l'Italia in recessione per la quarta volta in 10 anni, con la disoccupazione giovanile e non in viaggio verso nuovi record e le risorse di bilancio che latitano, sarebbe una provvidenziale boccata di ossigeno: la spinta allo sviluppo finora mancata, in grado di evitare il salto nel buio del depauperamento e della deindustrializzazione del paese. Per il nuovo Governo il prezioso viatico di un'Europa "amica" e non più soltanto arcigna.

 

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