Solo 11% dei danni ai cittadini viene riconosciuto

Dalla Rassegna stampa

Chi sbaglia paga. Almeno così dovrebbe essere per gli impiegati pubblici. Ma i magistrati sono semplici impiegati, cui chiedere direttamente conto degli errori commessi, oppure la loro citazione diretta in sede civile significa incidere sull’autonomia e sull’indipendenza delle "toghe"? La querelle sulla questione della responsabilità civile dei magistrati ruota attorno a questo interrogativo. Ma le questioni di principio sottendono, di fatto, drammi personali, ingiuste carcerazioni o errori di persona. Come nel caso, eclatante, di Enzo Tortora. La domanda è sempre la stessa: se un magistrato sbaglia, paga? Quanto e in che modo? I piani talvolta si sovrappongono o, peggio ancora, si confondono. Perché un conto è parlare di responsabilità civile, e cioè del risarcimento in solido, e un altro contro di responsabilità disciplinare. A raccontarci la differenza sono le storie stesse di "malagiustizia", dal caso Tortora al giudice Edi Pinatto che impiegò otto anni per scrivere una sentenza. Ma a fare la differenza sono anche i dati: appena l’1% dei ricorsi per responsabilità civile dei magistrati è stato accolto in 25 anni; negli ultimi sette anni al Csm è aumentata del 70% la trattazione di pratiche disciplinari, e le condanne sono cresciute dal 30% al 50% del totale dei procedimenti definiti.

IL CASO TORTORA

Giugno 1983. Quell’immagine di Enzo Tortora, ammanettato e scortato dal-carabinieri come un delinquente comune, rimane un vulnus alla credibilità di una magistratura inquirente che, nel caso del presentatore, non cercò i riscontri alle dichiarazioni di collaboratori o non verificò la vera identità di un nome appuntato sull’agenda di un camorrista. La battaglia dei Radicali, oggi reiterata, nel 1987 si tradusse nel referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. La traduzione in norma del principio secondo cui chi sbaglia paga toccò, nel 1988, all’allora ministro della Giustizia Giuliano Vassalli.

LA RESPONSABILITA’ CIVILE

Quella legge ha posto molti paletti alle richieste di risarcimento avanzate dai cittadini contro i magistrati. In primo luogo, la responsabilità diretta delle "toghe" è esclusa: la causa va intentata contro lo Stato che solo successivamente potrà rivalersi sul magistrato per un massimo di un terzo del suo stipendio annuo. Inoltre, la rivalsa è consentita solo nei casi di errori commessi per dolo o per colpa grave. Le maglie dell’ammissibilità dei ricorsi sono poi così strette che si contano sulle dita di una mano le condanne di magistrati per responsabilità civile. In 25 anni sono state promosse 400 cause, ma solo 4 (pari all’1%) sono state accolte. Troppo poche, senza dubbio. E nell’anomalia tutta italiana di una giustizia che non funziona e di cittadini che inutilmente chiedono di essere risarciti, hanno recentemente trovato un varco proposte di legge targate Pdl o Lega per far sì che la chiamata in causa sia diretta. Proposte mai passate. E che il vicepresidente del Csm, Michele Vieni, teme possano essere reiterate se, di fronte alla nuova procedura di in- frazione avviata da Bruxelles contro l’Italia, si affretta a precisare che l’Europa non chiede la chiamata in causa diretta del magistrato ma, anzi, «conferma che nei confronti del cittadino l’unico responsabile è lo Stato».

IL GIUDICE PINATTO

Nel caso delle sanzioni disciplinare, invece, i numeri disegnano un quadro diverso. Da quando nel 2006 l’allora Guardasigilli Roberto Castelli ha dato una stretta agli illeciti commessi dalle toghe, a Palazzo dei Marescialli hanno avuto un gran da fare. È vero che si tratta pur sempre di una giustizia "domestica", con magistrati che giudicano altri colleghi, ma i dati parlano di un aumento considerevole del numero di procedimenti trattati: da una media di 110-120 all’anno nel 2007 si è passati ai circa 200 a fine 2012. Su 342 fascicoli disciplinari definiti tra il primo settembre 2010 e il 31 dicembre del 2012, il 50% si è concluso con una condanna (dall’ ammonimento, alla censura, fino alla rimozione). Il caso più eclatante di destituzione è quello di Edi Pinatto: otto anni per scrivere la motivazione della sentenza con cui il tribunale di Gela aveva condannato sette componenti del clan Madonia, determinando per diversi di loro la scarcerazione. Via la toga, per sempre, anche per il giudice Rosanna Pucci della Corte di Appello di Roma, perché non si possono impiegare fino a 1.800 giorni per depositare una sentenza. Per non parlare, poi, delle "toghe" implicate in procedimenti penali, come il Tribunale civile di Bari, Michele Salvatore, condannato per concussione e di recente messo fuori dalla magistratura.

 

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