«Sognavamo l'Europa, l'ho visto sparire in mare»

Dalla Rassegna stampa

Erano due amici cresciuti nelle stesse strade sterrate della periferia di Asmara. Avevano studiato letteratura araba e turismo. Parlavano inglese e ogni tanto sbirciavano il mondo da un computer insieme. Pensando sempre alla fuga dall’Eritrea. La stessa che Asmeron, secco e lungo come Amir, aveva programmato da due anni, da quando la giovanissima moglie aveva raggiunto i suoi genitori in Norvegia. «Se vai tu, vengo anch’io», annunciò tre mesi fa Amir, festeggiando con il niente che avevano il compleanno, la stessa età di entrambi, 22 anni. Ma la vita s’è fermata di botto per Amir, che Asmeron ha riconosciuto fra i 13 cadaveri spiaggiati lunedì mattina come delfini di un mare crudele sulla battigia di Samperi, a due passi da Pozzallo, sotto Scicli, il teatro delle fiction del commissario Montalbano e delle tragedie reali. Ha spezzato anche questa fresca amicizia l’orrore dell’ultimo lutto del Mediterraneo provocato dalla violenza di scafisti senz’anima, decisi a liberare il barcone incagliato nella secca spingendo in mare i migranti che non sapevano nuotare. Cinque siriani e due egiziani, adesso agli arresti. «Non avevo mai nuotato nemmeno io», spiega Asmeron. «E non aveva mai provato nemmeno Amir che ho visto andare giù e risalire tante volte fra le onde, mentre io ce l’ho fatta, non so come, pur bevendo acqua a volontà, vomitando poi schiuma come fosse bava, lo stomaco stretto da una morsa, forse aiutato da qualcuno, ma senza memoria, gli occhi rivolti verso Amir che io non potevo aiutare e che a un tratto non ho più visto...».

È il racconto di un ragazzo triste e arrabbiato perché dice di avere anche preso «qualche manganellata senza ragione» in un Centro accoglienza da dove tutti vogliono andare via. «Che male c’è a ripetere che ho bisogno di rimettermi in viaggio verso mia moglie?», chiede Asmeron con pacatezza, sapendo che le forze di polizia hanno fatto un gran lavoro, ma deciso a rivendicare quelli che è certo siano i propri diritti. A gran voce. Come Ibraim Nasser, 19 anni, fascetta al polso, numero «149 F», tutti schedati per facilitare la fila a pranzo e cena. S’adatta malamente alle regole e al clima che si respira dentro il capannone trasformato in dormitorio, cento materassini per terra, anche Haimoneth, 20 anni, pure lei con la Norvegia nel cuore: «Mi aspettano i miei genitori. Devo andare, non restare qui. Ma sembra proibito dirlo, chiederlo...».

Adesso che ha riconosciuto pure nelle foto scattate al cadavere il suo amico del cuore, Asmeron ricorda: «Siamo partiti insieme, come sempre nella vita, da quando giocavamo a calcio fra le case del nostro quartiere. Stesso camion. La traversata nel deserto fino a Tripoli... La Sicilia? Solo un punto di passaggio. Si, forse Amir sarebbe venuto con me, da mia moglie in Norvegia. O, forse, si sarebbe diretto in Svezia dove ha un fratello che lavora, informato del viaggio, convinto che un giorno lo vedrà arrivare...». Anche per questa tragedia, per le altre 12 vittime di lunedì, per i lutti susseguitisi in una terribile estate, ieri sera si sono illuminate mille fiaccole per le strade di Scicli, giorno di lutto cittadino, come a Modica. Un segno per accendere l’attenzione che manca all’Europa, ai Paesi del Nord, gli stessi dove Amir non è riuscito ad andare e che Asmeron vorrebbe raggiungere.

 

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