Simboli addio

Scommetto che molti dei lettori di questa colonnina non solo non hanno mai visto una sedia gestatoria, ma non ne hanno mai nemmeno sentito parlare. Eppure, fino a non molto tempo fa, quando avanzava in processione all’interno di San Pietro o tra le ali del colonnato berniniano, il Papa si muoveva solennemente issato su una sedia gestatoria, appunto. Era una pesante poltrona di legno riccamente intarsiato e dorato, con cuscini e schienale di velluto color porpora, oscillante - grazie a due grosse stanghe infilate in appositi anelli - sulle robuste spalle di dodici "sediari pontifici" in livrea. Il Papa, a sua volta, aveva in bilico sulla testa il triregno - la triplice corona d’oro o dorata, ornata di pietre preziose, simbolo del triplice potere del Pontefice (Padre dei principi e dei re, Rettore del mondo, Vicario di Cristo in terra) - e veniva gratificato dall’incessante moto dei flabelli, specie di alti ventagli di bianche piume di struzzo, come se ne vedono nei bassorilievi delle tombe egiziane. Con il contorno delle guardie svizzere, coloratissime e con tanto di alabarda, faceva un bell’effetto.
Via via - vincendo tenaci resistenze opposte da cardinali, vescovi, monsignori o consiglieri sempre trepidi del nuovo - tra Paolo VI e Giovanni Paolo II la sedia gestatoria, il triregno e i flabelli sono stati riposti in soffitta. In pochissimi anni, antichi riti e consuetudini vaticanesche, sete marezzate, sfarzo, etichetta, sono spariti. Oggi, Papa Francesco fa mostra di atteggiamenti modesti, sobri e familiari, non benedice più dall’alto della sedia gestatoria la plaudente folla tenuta a distanza dalle transenne ma abbraccia il bambino, la vecchia, il disabile che gli vengono messi sotto il naso. Non si tratta solo di un atteggiamento personale, caratteriale. È l’antico e venerabile linguaggio dei simboli ieratici che viene abbandonato perché ha perso ogni significato. Nel confronto con la modernità, è qualcosa di più che un passo indietro, omaggio obbligato e formale a uno dei feticci del mondo di oggi, quello della eguaglianza populistica e ricattatoria. E’ la struttura simbolica della chiesa, fino a poco tempo fa sacralizzata e intangibile, che viene demonizzata. Ma se i simboli si fanno transeunti e quindi "relativi", dove è racchiuso il nocciolo di verità, il "depositum fidei" che giustifica l’esistenza della chiesa? E se, oltre i simboli, nel magistero ecclesiale vi fosse altro che può essere impunemente sottoposto al giudizio del tempo, se non addirittura della moda - e comunque della fallace volubilità dell’uomo? Chi, al momento del processo, avrebbe dubitato che Galileo era caduto nell’errore se non nella eresia? Eppure è successo, con conseguenze forse ancora da scontare. L’attuale rinuncia alle esteriorità simboliche è insomma il segno di un passaggio che potrebbe essere epocale, tale da rimettere in discussione molte certezze. Va bene: restano, intoccabile "depositum fidei", i dogmi. Ma come si esprimeranno, con quale linguaggio? Papa Francesco mette in circolazione il cicaleccio del parroco sotto casa. Sarà adeguato? Sarà sufficiente?
Comunque sia, si riapre quel portone di bronzo che era stato chiuso e serrato sulle aspettative nate dal Concilio Vaticano II. Recentemente il presidente della Repubblica si è recato in visita ufficiale al Pontefice. Lo accompagnava tra gli altri, secondo cerimoniale ed etichetta, il ministro degli Esteri, Emma Bonino, Radicale storica e credente "in altro", per dirla alla Pannella. Papa Francesco l’ha salutata con un allegro "cerea", il saluto in dialetto piemontese familiare sia alla Bonino (nata a Bra) che a Papa Bergoglio, piemontese di ascendenze se non di nascita. Siamo a qualcosa di più che alla rottura di un cerimoniale. Fa capolino, oltre il portone di bronzo, il linguaggio piano, non simbolico, della laicità. Sì, lo so, anche altri papi hanno fatto strappi al cerimoniale. Ma qui forse si tratta dell’instaurazione di un costume...
P.S. Sono stato a vedere "La grande bellezza". Non un capolavoro, ma interessante. Sorrentino cerca di restituirci una Roma grondante, come la felliniana "Dolce vita", di umori clericali. Vanno e vengono, attraversando lo schermo, suorine o educande, la grande sequenza finale ci mostra una orrenda, centenaria suora dalle gengive senza denti che cerca di assolvere alla antica devozione di salire i gradini della Scala Santa in ginocchio, e un cardinale in mozzetta e berretta che intrattiene gli ospiti di una cena offerta in onore della venerabile suora. Lo spirito del film vuole essere, ripeto, felliniano, ma mentre Fellini ci mostrava una Roma nella quale la presenza di frati e suore, di cardinali, monsignori e faccendieri era davvero massiccia e invadente, bisogna avere l’onestà di riconoscere che nella Roma di oggi non c’è più quella contiguità antropologica. Ma nell’immaginario mondiale e nei libri di Dan Brown e seguaci Roma esiste solo in quello stereotipo, di cui la magniloquente ritualità clericale era parte integrante. Ho detestato questa immagine della capitale d’Italia. Che tocchi a Papa Francesco il compito di liquidarla e farla dimenticare?
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