Senza fine

Dalla Rassegna stampa

Terminologie. Un carissimo amico, che frequento in un continuo dialogo condito di consensi e dissensi, mi ha telefonato subito dopo aver letto la mia colonnina di giovedì scorso. Era perplesso di fronte a un termine che io avevo inserito nel discorso: "teleologicamente". "Ma tu non volevi dire, per caso, teologicamente?", mi ha chiesto. Gli ho ribadito che no, avevo usato proprio quel termine che a lui risultava, evidentemente, insolito. Borbottando dubbioso, l'ha chiusa lì, abbiamo riattaccato il telefono ripromettendoci di vederci presto, magari per una pizza. Poi ci ho ripensato. Il mio amico è un (ottimo) giornalista, come mai non conosceva quel termine, mentre con altrettanta evidenza mostrava di conoscere il significato del termine "teologia"?

Il fatto è che, tra mode varie e vera conoscenza, di teologia si parla spesso, magari in sedi e con spessore solo giornalistico. Il termine "teleologia" e derivati è invece poco consueto se non addirittura desueto, solo gli specialisti lo sanno maneggiare. Eppure, l'intera tradizione occidentale è permeata dal senso di quel termine e dei suoi derivati e composti. La storia della cultura occidentale è un intreccio di riferimenti, diretti o indiretti, a questa forma speculativa nata, credo si possa dire, - all'interno della prospettiva cristiana. Ancora nel secolo dei lumi si ha a che fare con quel termine, l'illuminismo si interroga sui fini ultimi dell'uomo e della sua storia, che costituiscono appunto l'oggetto della teleologia. Per Kant il giudizio finalistico (che non è il giudizio conoscitivo di cui si occupa la "Critica della Ragion pura") riconosce che l'uomo si muove secondo un fine, per conseguire una finalità non sottoposta alle ferree leggi della natura: il meccanicismo illuminista trova nella speculazione teleologica il suo confine. E incalliti laicisti ancora utilizzano, senza rendersene conto, un termine così profondamente caratterizzato.

Il confronto è sempre in corso, per esempio quando si dibatte del rapporto tra scienza e fede. Nonostante gli sforzi conciliaristi ed ecumenici, non è ancora stato individuato un termine medio che consenta un qualche raccordo stabile tra quei due termini: ogni più benevolo e rassicurante tentativo finisce col restare interlocutorio, ci si saluta e si rimanda tutto al prossimo dibattito o incontro. La modernità continua a puntare sulla visione meccanicistico-scientifica e nega la possibilità di un qualsiasi finalismo nella spiegazione dei processi naturali (tranne per il caso di Jacques Monod o di Teilhard de Chardin). Ora trovo in edicola un libricéino curato da Edoardo Boncinelli: "Charles Darwin. L'uomo: evoluzione di un progetto?". Mi incuriosisce, lo compero. Ci risiamo, anche questo compendio per lettori medi insiste sulla tesi che "dal punto di vista scientifico non c'è dubbio, c'è poco da discutere" e il darwinismo "non è mai stato in buona salute come oggi", epperò "non si può nascondere il fatto che se ne discute tanto, soprattutto (...) per quanto concerne l'uomo e la sua origine". Boncinelli mima anche il discorso dei creazionisti: "Che ci importa di come si è originato l'uomo? L'importante è che sia così com'è e che proceda verso un avvenire sempre più luminoso, sempre più interessante". Eccolo, indomabile, il teleologismo, anche se non proprio kantiano. Va bene: per quanto riguarda la scienza e il suo oggetto - la natura - perché mai dobbiamo sforzarci a utilizzare terminologie prettamente umane, come sarebbero, appunto, "finalità", "finalismo" (o anche il loro opposto, cioè il "caso")? Questi termini non sono compresi in nessun protocollo scientifico. Il finalismo teleologico del cristianesimo è nato nell'ambito della problematica storica. E lì deve restare. Il cristianesimo (l'ho già scritto, ma il tema è inesauribile) nasce come visione profetica della vicenda dell'uomo, del singolo come della comunità, della specie. Questa visione rovescia del tutto il senso del tempo rispetto alla classicità. Il tempo come binario di una storia improntata teleologicamente arriva fino a Hegel. È Marx che interrompe questo fluire. Per Marx la storia a un certo punto finisce. Con la liberazione dell'uomo dalla necessità e dalla schiavitù, con la fine della sua mercificazione la storia si conclude (un discorso comunque ben più serio di quello di Fukuyama). Peccato che il secolo delle ideologie sia chiuso. L'uomo se ne sta, solo e smarrito, sotto le stelle kantiane. Ma non preoccupiamocene troppo. La riflessione più seria come il più banale buonsenso popolare continueranno a sbattere il naso sulla domanda: "Che senso ha la nostra vita?". A priori tutti sappiamo bene che alla domanda non c'è risposta certa. Semplicemente, forse, non può esserci: la questione si gioca in fondo su un fattore puramente terminologico.

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