Santa Cesarea, nuovo martirio...di natura

La linea di costa che contorna il Tacco d'Italia non è mai monotona. Le povere riserve di sabbia che la natura ha affidato al Salento si esauriscono nei brevi tratti di costa a nord di Otranto da una parte e di Gallipoli dall'altra. Il resto è roccia che l'opera artistica di un tempo millenario e del mare battente ha disegnato a modo suo. A occidente, scogli, insenature e isolotti appena affioranti e, a oriente, alte falesie che sprofondano nelle acque del Canale d'Otranto, interrotte da canaloni come quelli di Porto Badisco e del Ciolo e da grotte come la Zinzulusa che penetra nelle viscere della terra sotto l'alto costone di Castro, la grotta Romanelli dove sono stati trovati graffiti che testimoniano un'arte preistorica tra le più antiche in Italia o la grotta dei Cervi in cui ignoti artisti del neolitico hanno ripreso scene di caccia di migliaia di anni fa.
Arrivati a Santa Cesarea, la scogliera irta di punte taglienti dissuade ogni tentativo di invasione di villeggianti. L'atto originario di questo luogo si perde nella notte dei tempi e giunge fino a noi trasfigurato da miti pagani e leggende cristiane. Il mito più antico, tramandato per primo da Aristotele di Stagira, narra che Ercole insegui e massacrò a colpi di clava i giganti Leuterni padroni del luogo. Dai corpi disfatti dei mostri vennero fuori le sorgenti sulfuree delle quattro grotte carsiche di Santa Cesarea: la Gattulla, la Fetida, la Solfatara e la Grotta Grande.
Nei secoli a venire ha preso il sopravvento una leggenda cristiana che fa leva sull'eterno conflitto tra bene e male, purezza e peccato. Racconta della giovane Cesarea che per sfuggire alle mire incestuose del padre scappa di casa e si rifugia in una delle grotte della zona. Per intercessione divina, la vergine si salva, mentre il padre-orco brucia nei fumi di zolfo che sgorgano dalle acque che, purificate dalla santità di Cesarea, avrebbero curato nei secoli il corpo di sofferenti veri e malati finti o immaginari.
Storie terribili e crudeli, ma che impallidiscono di fronte alla terribilità e alla crudeltà dei mostri contemporanei che hanno dichiarato guerra all'ambiente, al paesaggio e alla cultura di uno dei più preziosi tratti di costa salentina, che dovrebbe essere tutelato dall'Unesco come patrimonio unico e raro dell'umanità e invece è violentato, trattato come fosse l'ennesima e indistinta copia di un pezzo qualsiasi della riviera romagnola.
L'opera umana di cancellazione della memoria storica di Santa Cesarea è apparsa evidente a tutti quando, sei anni fa, è sparita d'un colpo la passeggiata degli alberghi del centro storico, coi suoi pini secolari e, soprattutto, le tre grandi scalinate in basole di pietra locale, corrispondenti ai principali edifici soprastanti, gli ex hotel La Salute e Oriente e il Municipio. Non è solo un danno estetico, il palazzo-simbolo di una comunità quasi sparito alla vista, è anche la cifra di un luogo che ha perso l'anima, a cui è stato strappato il cuore.
Tutto sbancato per far posto a una cervellotica struttura autoreferenziale del tutto estranea allo stile architettonico dei palazzi limitrofi. Nulla a che fare con lo stile classico dell'Albergo Palazzo che faceva da cornice alle favolose feste d'estate degli anni Sessanta o con lo stile moresco di Palazzo Sticchi dove Carmelo Bene ha ambientato il capolavoro Nostra Signora dei Turchi.
Il genio del male in veste di architetto non si è fermato al centro storico, si è incamminato anche sulla strada costiera che a sud porta a Castro e, appena sopra Porto Miggiano, su un ciglio di scarpata della litoranea misteriosamente tagliato fuori dal parco naturale Otranto-Santa Maria di Leuca, ha progettato un villaggio residenziale di 536 appartamenti. Un ulteriore contributo al già assurdo sviluppo urbanistico di Santa Cesarea, che è contro la sua natura di città-balcone, attraente e inospitale, incompatibile con un turismo di massa.
Negli anni Settanta, quando viene varato il piano regolatore della città, sui quattordici ettari del «Comparto 13» c'erano solo cuti e rare chiazze di terra rossa, arbusti, sparuti alberi di pino, quercia, fico e piccole colonie di fichi d'India in perenne lotta per la vita a causa della brezza marina e della carenza d'acqua che li tormentano.
Oggi, la natura è esplosa selvaggia e ricca delle più varie forme di vita. Dopo venticinque anni - una generazione, in tutti i sensi - i rari alberi del «Comparto» sono divenuti bosco e la macchia mediterranea si è intricata e arricchita di elementi botanici sempre più alti e folti. Oggi puoi trovare il fragno, il leccio, il fico, il pero selvatico, il cipresso, il pino domestico e il pino marittimo, gli olivastri e anche il carrubo, specie protetta in Puglia perché in via di estinzione. Trovi la salvia, il rosmarino, il timo, i caprifichi. Trovi grandi cespugli di euforbia, lentisco, mirto, ginestra, salvione giallo, spinaporci. Trovi lo statice salentino, l'alisso di Leuca, la campanula, varie specie di malva e di orchidea, i piumini, il rarissimo «Echinops Spinosissimus», l'agave, la canna domestica, il cocomero asinino e il finocchio di mare che viene ancora preparato e conservato sott'olio ad accompagnare alcune pietanze.
Tutto ciò rischia di scomparire in questo meraviglioso tratto di costa, che spero Angela Barbanente voglia salvare. Oltre che assessore stimato, lei è anche architetto, un architetto per bene, che si è sempre mostrata vicina alle ragioni di tutela del paesaggio e lontana, invece, dai piani diabolici di architetti del male come quelli che, alla fine, hanno fatto a Santa Cesarea ciò che il padre padrone della leggenda non era mai riuscito a fare.
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