Sì alle semplificazioni ma il governo finisce tre volte sotto

Dalla Rassegna stampa

La fibrillazione tra i partiti che reggono il governo ha raggiunto un livello tale che perfino un «montiano doc» come Enrico Letta vede nero, «perché se giovedì sera al vertice la situazione non si raddrizza, si mette male». Una tensione, quella che vede il premier a fare da arbitro al braccio di ferro tra Pd e Pdl su giustizia, lavoro e Rai, che giocoforza si ripercuote nella dinamica dei lavori parlamentari.

Dove l'ingorgo legislativo ha obbligato ieri sera i deputati a misurarsi fino alle 8 di sera con il decreto semplificazioni, passato con 442 sì e 52 no, con più di cento assenti in aula e ora atteso al Senato; ed oggi stesso si procede con la richiesta di fiducia sull'altro decreto, quello sulle liberalizzazioni, che verrà approvato in nottata alla Camera con buona pace della Lega, che già ha fatto partire il suo ostruzionismo.

Insomma, se fuori dal Palazzo la riforma del lavoro traballa sotto i colpi delle polemiche Fornero-sindacati, dentro il Palazzo il governo balla pure sotto i colpi dei deputati ansiosi di prendersi le loro piccole rivincite sui ministri tecnici. I partiti infatti, sentendosi con le mani legate su tutti i fronti, prima del voto serale si scatenano sugli ordini del giorno al decreto sulle semplificazioni.

Al punto da unirsi in modo bipartisan facendo andare sotto il governo tre volte: il primo è un ordine del giorno del Pdl per impegnare l'esecutivo ad un piano di rilancio dell'Alcoa, lo stabilimento metallurgico del Sulcis in grave crisi, che votano tutti tranne i Radicali; il secondo ordine del giorno è della Lega, che chiede l'esenzione del 50% dell'Imu per le famiglie con figli disabili, passato a grande maggioranza; il terzo del PdL, sulla vendita dei giornali al di fuori delle edicole, approvato con 413 sì, 77 no e 16 astenuti. In un clima, inedito fin qui, di acuta frizione tra Parlamento e ministri tecnici, che il Terzo Polo prova a riportare a più miti consigli. Il capogruppo Ude Galletti si alza per difendere la proposta del Pdl. «Non capiamo i motivi di questo parere negativo, qui si chiede che i giornali si possano vendere non solo nelle edicole ma anche nei bar, facendo così un favore ai cittadini». E al diniego di Patroni Griffi a cambiare idea, Fini tenta di proteggerlo da un altro danno, «ma è solo un ordine del giorno...». Spalleggiato da Casini, «se volete poi regolare la materia nella legge sulle liberalizzazioni si può ben fare..».

Niente, anche se Patroni Griffi dice che è normale dialettica parlamentare, i veleni scorrono: perfino un moderato come Fioroni del Pd se ne va senza votare il decreto, contestando le norme sulla scuola.

Alla fine, ciò che rimane sul terreno sono alcuni dati politici: primo, il fatto che i pareri contrari del governo non sono considerati vincolanti dalla sua maggioranza e questo non è certo un segnale di forza; secondo, che per la prima volta questo esecutivo va sotto con numeri così «pesanti» e bipartisan; terzo, che ad un certo punto gli stessi deputati decidono di ritirare gli ordini del giorno invisi all'esecutivo per non fargli troppo male. «Se non cambia idea, il mio Io ritiro per evitare che il governo vada giù un'altra volta», allarga le braccia il 'Addì Ivano Strizzolo.

Dunque, si capisce meglio la cautela con cui Monti si accinge a tastare il polso dei leader sui nodi più intricati che flagellano da anni il campo di gioco a Montecitorio, ma che non rientrano nel novero delle urgenze economiche. «Malgrado la vocazione del governo sia il superamento della crisi e il rilancio della crescita, è doveroso che si occupi anche di giustizia e corruzione», dice il premier. Affrettandosi a chiarire che prima che il governo avanzi una sua proposta è opportuna però «un'esplorazione politica delle concrete possibilità che il Parlamento la approvi».

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