La riforma elettorale non si farà

Nonostante gli interventi del capo dello Stato, che hanno superato qualsiasi precedente per quantità e qualità; nonostante le dichiarazioni fiduciose e speranzose di esponenti, anche di primo piano politico e parlamentare, della maggioranza; crescono i dubbi sulla realizzabilità della riforma elettorale.
Se guardiamo a chi la contesta a viso aperto, si tratta di ambiti limitati.
Ci sono i radicali, i quali proseguono nella loro battaglia di principio, in nome dell'illegittimità (o almeno della violazione di una raccomandazione emessa dal Consiglio d'Europa, per la quale la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato la Bulgaria) di mutare le norme elettorali a breve distanza dalle urne.
Anche la Destra di Francesco Storace insiste su tale argomentazione, rilevando (non a torto) che già ora sono raccoglibili le sottoscrizioni per le liste di candidati, ma non è possibile sapere come si voterà, posto che il porcellum potrebbe essere dissolto.
A frapporsi alla riforma, però, sono ben altre difficoltà. Intanto, c'è l'ombra di Silvio Berlusconi, ostinato oppositore delle preferenze e acceso sostenitore del porcellum: due posizioni, a dir la verità, sulle quali, a differenza di molti altri casi, è sempre rimasto coerentemente fissato.
Poi, ci sono le fratture interne sia al Pdl (molto forti, e in crescita dopo l'acuirsi della possibilità che si frantumi il partito del predellino) sia al Pd (più silenti, ma concrete).
Ancora: c'è la circostanza, da tutti ammessa, che il mantenimento delle regole odierne consentirebbe alla coppia Bersani-Vendola di stravincere alla Camera (secondo alcuni, permarrebbero difficoltà a palazzo Madama).
Conseguentemente, il Pd dovrebbe solo stare attento a non apparire come il responsabile della permanenza in vita del porcellum.
La soluzione, ben vista dai nemici della riforma, consisterebbe in qualche votazione affossatrice della riforma non tanto al Senato (ove si potrebbe giungere a un'intesa, sia pure con molte difficoltà e con incertezza nei voti in aula su singole disposizioni), quanto alla Camera, mercé il voto segreto.
Appunto la segretezza consentirebbe di accusarsi reciprocamente del fallimento, lasciando alla fine al presidente della Repubblica di certificare, con una scorata dichiarazione, il fallimento dei suoi diuturni sforzi.
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