La ricerca della felicità possibile in una Torino dall’animo colorato

Dalla Rassegna stampa

Sino a non molto tempo fa, nessuno avrebbe messo Torino nel titolo di un film. La città era già ovviamente tra le più belle d’Italia, ma era considerata grigia, plumbea, chiusa, con un centro storico malandato e la borghesia rifugiata nelle case in collina. Davide Ferrario mette invece il nome della sua città d’adozione nel titolo della sua nuova opera, La luna su Torino. Ed è una città molto diversa dagli stereotipi. Non c’è la Torino operaia, novecentesca, del resto ormai ridotta nei numeri e negli spazi. Non c’è il «lugubre urbano», categoria individuata da Fruttero&Lucentini ne La donna della domenica, il romanzo che resta il ritratto più fedele della Torino della seconda metà del secolo scorso. La Torino di Ferrario è una città coloratissima: il villaggio olimpico con il suo ponte rosso fuoco, il PalaVela restaurato (che il protagonista tenta a più riprese di scalare), gli igloo con i neon di Mario Merz, le nuove luci del mercato di Porta Palazzo, la nuova metropolitana, la pista ciclabile del Valentino, i baffi di pietra di Vittorio Emanuele II, i battelli sul Po, il Bioparco Zoom di Cumiana, che sorge proprio sul 45° parallelo, a metà strada tra il Polo Nord e l’equatore. Ci sono poi altri fili conduttori (dall’opera di Leopardi ai manga erotici) a tenere insieme la vicenda di Ugo (Walter Leonardi), Maria (Manuela Parodi) e Dario (Eugenio Franceschini), tre amici che abitano nella casa in collina che Ugo ha ereditato dal padre architetto e dalla Madre designer.

La sua famiglia ha un’antica militanza a sinistra, lui stesso mette in fuga il creditore venuto a ricordargli l’ipoteca impugnando falce e martello (e la vestaglia gli si apre proprio davanti alle anziane signore del coro delle mondine, abituali frequentatrici della casa come anche i vecchi della bocciofila, grandi raccontatoci di storie). Però Ugo, all’apparenza, non combina nulla. Cerca invano di sedurre Maria. Gira in bicicletta. Sale sulla tramvia di Superga (che i torinesi chiamano Dentiera, Dentera in dialetto), improvvisando gare di cultura calcistica con il conducente: «Sampdoria 1987?»; «2 a 0 per noi. Comi e Corradini». «Cesena 1982?». «1 a 0 per loro» (ovviamente si parla del Toro. Il luogo comune vuole che in città ci siano più granata che bianconeri. Di sicuro, la Juve è amata dall’alta borghesia vicina agli Agnelli e dagli operai, in particolare da coloro che sono arrivati dalla provincia piemontese o dal Sud. La piccola borghesia tifa in maggioranza Toro perché è più legata all’identità preindustriale della città, e da sempre diffida della Fiat, fucina di modernità ma vista anche come calamita di immigra- zione e incubatrice di disordine sociale).

Ugo insomma si trascina in un’esistenza non infelice ma sospesa, sempre attendendo qualcosa o qualcuno. È lo stesso conducente della tramvia a sintetizzare il pericolo: «Pensi di essere tu a portare la baracca, invece è la baracca a portare te». Poi però qualcosa accade. Non è il caso di raccontare la trama (il film esce nelle sale giovedì prossimo). Va detto che La luna su Torino è un’opera piena di poesia, sia quando racconta i limiti del vivere - compresi quelli della nuova Torino, tipo la spiaggia urbana sul Po venuta male -, sia quando suggerisce che la felicità può anche non rivelarsi inattingibile. Alcune scene sono esilaranti, come il passaggio sui libri di Paolo Brosio, o la notte al bioparco con gli altoparlanti che trasmettono Radio Radicale «per tenere le faine lontane dai pinguini». Sullo sfondo, il simbolo della città, la Mole con il suo museo del cinema, dove undici anni fa Ferrario aveva ambientato il suo film più noto (Dopo mezzanotte), e che qui torna ogni tanto come una ricorrente immagine notturna, con una sfera sullo sfondo che pare la luna ma è una mongolfiera.

 

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