Quo vadis, Pannella?

Ora che anche i nostri Radicali, antichi e combattivi maestri di garantismi, giustizie giuste e prigioni umanamente corrette hanno scoperto l'utilità e il valore della carcerazione cautelare, urge tornare a chiedersi chi ha inventato il "garantismo". C'è chi pensa che lo abbia inventato la sinistra. Altri, al contrario, credono che lo abbia inventato la destra. Altri ancora, che lo abbia inventato il centro. Tutti sembrano però d'accordo nel pensare che sia un'invenzione piuttosto recente. Non più vecchia, in ogni caso, di Marco Pannella. E questa è una sciocchezza che può circolare impunemente solo in ambienti sprovvisti della più elementare cultura giuridica.
L'idea che il "garantismo" sia una trovata moderna sembrerebbe confermata dal fatto che l'espressione è entrata nel nostro linguaggio in anni abbastanza vicini. Ma la parola non è l'idea. E l'idea, se con essa si intende il principio della più rigorosa tutela dei diritti dell'imputato nella prassi giudiziaria, è cosa molto antica. Antica almeno come l'antica Roma. Giacché le sue radici affondano appunto nella sapienza giuridica dei legislatori latini dei primi secoli dell'era cristiana.
Una mentalità giuridica che oggi potremmo forse definire "garantista" si riscontra già, del resto, nella cultura greca dell'età classica. Per esempio, in alcuni passi dei "Problemata", un testo che si suppone redatto nel IV secolo a. C., si affermano principi del tutto conformi alle esigenze del garantismo moderno. Ma si tratta di timidi indizi. Che furono poi sviluppati appunto, cinque o sei secoli dopo, con straordinaria coerenza e vigore, dai giureconsulti romani della tarda età imperiale. Non è anzi esagerato sostenere che tutto l'edificio teorico dei "garantismo" moderno è racchiuso, come un albero nel proprio seme, in quell'ammirevole motto latino che in quattro sobrie parole - "in dubio pro reo" - afferma che nei casi giudiziari dubbi si deve decidere sempre a favore dell'imputato. Con esso infatti emerge, forse per la prima volta in forma esplicita e rigorosa nella storia del diritto occidentale, la concezione per cui il criterio della tutela del possibile innocente deve prevalere su quello della punizione del probabile colpevole.
Il principio fu enunciato con la massima chiarezza, all'inizio del II secolo d. C., dall'imperatore Traiano che, secondo un commentatore del IV secolo, Domizio Ulpiano, soleva dire che rischiare di lasciare impunito un colpevole fosse meglio che rischiare di punire un innocente. Lo stesso concetto fu ribadito pochi anni dopo da Antonino Pio, sotto il cui regno un insigne magistrato di quel tempo, di nome Giulio Paolo, su esplicita richiesta di quel saggio imperatore, stabilì una norma in base alla quale, nel caso di equipollenza delle ragioni dell'imputato e di quelle dell'accusa, si sarebbe dovuto decidere sempre a favore del primo e mai del secondo. Di squisita ispirazione garantista è anche il pensiero giuridico di Gaio, un altro insigne giurista di quel tempo, il quale sostenne l'esigenza che gli "auctores" e i "rei", ossia gli accusatori e gli imputati, fossero posti sempre a confronto diretto. Notevole infine è una frase di Seneca il Vecchio, così chiamato per distinguerlo dal suo più famoso figliolo, che in un passo di un suo trattatello giuridico ("Controversiae",1,5,3) infilò questo mirabile fioretto garantista: "Inter pares sententias mitior vincat", tra due pareri equipollenti prevalga il più moderato.
Insomma il seme del "garantismo" diede i suoi primi frutti decisivi a Roma fra il I e il II secolo d. C. Quale il motivo di questa inoppugnabile circostanza? La parola agli esperti del ramo "Giustizia & Società". Qui ci limiteremo a osservare che quel seme, per attecchire e fruttificare, ebbe bisogno della natura benigna di alcuni imperatori di quel tempo.
È noto, per esempio, che Traiano, che fu il primo imperatore di origine provinciale (proveniva dalla Spagna), fu un uomo di indubbie qualità umane. Egli infatti si distinse sia come condottiero, sia come saggio ed equo amministratore, sia, infine, come promotore di una prassi giudiziaria illuminata. Come condottiero acquistò grande fama e prestigio con la conquista della Dacia, sconfiggendo in due campagne il suo sovrano, Decebalo, che alla fine si suicidò (la grande impresa è narrata in quel singolare monumento, prezioso per i suoi bassorilievi, che è la Colonna Traiana). La sua saggezza di amministratore si manifestò soprattutto nella creazione, frutto della sua comprensione per i bisogni delle classi povere, delle sue famose "istituzioni alimentari", consistenti nell'assegnazione di sussidi alle famiglie bisognose. Il suo spirito "garantista", infine, oltre che nell'adesione al principio sancito dal motto "in dubio pro reo", si espresse anche nei confronti dei cristiani, verso i quai, in un'epoca in cui essi erano ancora oggetto di molta diffidenza, dimostrò la sua saggezza e mitezza raccomandando ai suoi magistrati di non considerare criminosa la loro fede, ossia di processarli soltanto nei casi in cui fossero stati regolarmente denunciati per l'inosservanza di qualche specifica legge.
Di segno in qualche modo "garantista" furono anche le riforme giuridiche varate dal suo grande successore. Nell'amministrazione della giustizia Adriano manifestò infatti un senso altrettanto vivo dell'equità. Rinnovò il divieto dell'evirazione. Tolse ai padroni il diritto di vita e di morte sugli schiavi. Stabilì pene severe contro i padroni che si rendevano colpevoli di maltrattamento dei loro servi. Proibì il commercio degli schiavi nei casi in cui offendeva il pudore e - formula, ancorché vaga, invitante alla clemenza - le "leggi dell'umanità". Limitò la pena di morte agli schiavi che, in caso di uccisione del loro padrone, gli erano così vicini da potergli recare aiuto o danno, mentre in precedenza tutti gli schiavi che abitavano nella casa del padrone assassinato, per questo semplice fatto venivano condannati alla pena capitale. In Italia e nelle province affidò la giustizia a speciali magistrati detti "iuridici". Si circondò di giureconsulti valenti come Giulio Celso, Nerazio Prisco e Salvio Giuliano, al quale nel 131 ordinò di raccogliere e ordinare le leggi del popolo, gli editti dei pretori e i senato-consulti, di farne una scelta e di formarne un codice chiamato "Edictum perpetuum", che ottenne la sanzione del Senato e per molto tempo rimase l'unica raccolta di leggi dell'impero).Di grande rettitudine e buonsenso diede prova infine anche Antonino che, seguendo le orme di Adriano, assistito come il suo predecessore dai più illustri giureconsulti, curò molto le cose della giustizia. Elevò la condizione della donna decretando che il marito potesse punirne l'infedeltà solo nel caso in cui lui si fosse mantenuto fedele alla moglie. Migliorò la condizione degli schiavi deliberando che i padroni che uccidessero i loro schiavi incorressero nelle pene imposte agli omicidi. Abolì la confisca dei beni paterni per i figli dei funzionari condannati per concussione a patto però che essi restituissero alle province quello che il padre aveva loro sottratto. Fu infine molto severo con coloro che nella riscossione dei tributi sì rendevano colpevoli di eccessivo rigore. Col successore di Antonino Pio la faccenda si ingarbuglia. Non che Marco Aurelio non si sia dimostrato tollerante e saggio anche nell'amministrazione della giustizia. Ma la sua tolleranza e saggezza venne meno, com'è noto, di fronte a un evento per lui estremamente minaccioso: il crescente successo del cristianesimo. Il più celebre degli episodi dai quali emerge questo suo limite è la strage che nel 177 d. C. ordinò a Lione, durante la quale i soldati e la plebaglia massacrarono quarantotto cristiani che si erano rifiutati di rinnegare la loro fede. Questa decisione fu ovviamente suggerita dalla ragion di stato. I cristiani predicavano una dottrina che anche agli occhi del saggio Marco Aurelio, poiché sembrava che contenesse il progetto di un ordine nuovo basato sulla giustizia sociale, rappresentava un pericolo estremo.
I cristiani, naturalmente, reclamavano la libertà di culto. Ma si può lecitamente dubitare che la reclamassero in nome del principio (largamente praticato nel paganesimo antico che in questo fu spesso molto più tollerante e garantista del cristianesimo, che per molti secoli non lo fu affatto) della libertà religiosa. Comunque ad allarmare le classi ricche romane non era affatto il problema della libertà di culto, sul quale non avrebbero esitato a mostrarsi, come sempre, o quasi sempre, molto permissive (era infatti gente "pia" soltanto formalmente e per dovere sociale). Era piuttosto il timore delle conseguenze economiche, politiche e sociali di una vittoria del cristianesimo. Il "sistema" si sentiva insomma seriamente minacciato da una dottrina apparentemente basata sul disprezzo della ricchezza e l'esaltazione della povertà. E questo bastò a suggerire persino a colui che fu forse il più nobile degli imperatori di quel secolo di sospendere, verso i cristiani, il proprio spirito "naturaliter" garantista.
Il seme del garantismo fu riscoperto dal cristianesimo suppergiù mille anni dopo. Rispuntò infatti soltanto nel XIV secolo, quando Bonifacio VIII enunciò questa regoletta esemplare: "Cum sunt partium iura obscura reo favendum est potium quan auctori", quando le ragioni delle parti non sono limpide bisogna favorire l'imputato piuttosto che l'accusatore: un principio che quel dotto Pontefice inserì nel VI libro delle sue celebri "Decretali", opera che, com'è noto, fu molto amata da papa Wojtyla, che le dedicò un suo saggio giovanile.
Da questi succinti ragguagli sulle origini del garantismo risulta fra l'altro evidente che la pretesa delle moderne sinistre di esserne le vere madri è abbastanza illusoria. "Sinistrismo" e "garantismo" anzi non sono affatto "ismi" congeneri e solidali. Sul delicato problema converrebbe comunque cedere la parola agli esperti del ramo "Illusioni Ideologiche". Fra i quali figurano molti eccellenti esponenti del nostro zoo politico certamente non ignari del fatto che la sinistra, non solo quella italiana di oggi ma quella ideale ed eterna, è sempre stata, e verosimilmente sarà sempre, intrepidamente giustizialista. Vedi l'assoluta assenza di macchie garantiste in tutti i grandi processi da lei allestiti negli ultimi due secoli, da quelli che durante il Terrore giacobino permisero alla ghigliottina di funzionare a ciclo continuo per oltre due anni alle grandi purghe dell'era staliniana, dalle migliaia di esecuzioni sommarie, ossia senza processo, con cui il nostro patriottico Risorgimento annientò il brigantaggio alla gagliarda performance di piazzale Loreto, e dalla saga di Mani pulite al recentissimo evento dal quale siamo partiti: la toccante prova di vitalità offerta dai nostri Radicali, decidendosi finalmente a scoprire anch'essi il fascino discreto della magistratura manettara.
Ma siamo poi sicuri che quest'ultima scelta dei parlamentari del partito di Pannella costituisca una vera rottura col suo passato di garantista assoluto? Decidano i suoi fedelissimi. Certo è che essa non comporta alcuna rottura col suo passato di vecchio alunno di colui che fu forse il suo più grande predecessore: quel Peregrino che egli non ha mai cessato di imitare minacciando come lui, un giorno sì e l'altro pure di tornare a suicidarsi coi suoi simpatici scioperi della fame e della sete, finora sempre interrotti un attimino prima del sua temuta estinzione. Il massimo esperto dell'argomento è ovviamente il grande Luciano - quel delizioso poligrafo del II secolo d. C. che dileggiò allegramente più o meno tutte le vanagloriose follie del suo tempo in operine immortali come i "Dialoghi dei morti", i "Dialoghi degli dei" e i "Dialoghi delle puttane", nonché in innumerevoli racconti, romanzini, cronachette, opuscoli e libelli, il più memorabile dei quali è forse appunto il delizioso pamphlet - intitolato appunto "Morte di Peregrino" - in cui egli descrisse, analizzò e derise la figura, le idee, la vita e soprattutto la morte di quel simpatico personaggio. Ecco il sugo di quella narrazione.
Correva l'anno 165 e proprio in quei giorni, a Olimpia, si tenevano i famosi Giochi. Il luogo era perciò affollatissimo e proprio per questo Peregrino (che da un bel pezzo non vedeva l'ora di riscuotere, non soltanto con la predicazione delle sue dottrine, vagamente simili a quelle diffuse allora fra i primi cristiani, ma anche e soprattutto con le sue azioni, anch'esse non molto diverse da certi eccessi autosacrificali del cristianesimo delle origini, un clamoroso successo di massa) decise di approfittare di quell'occasione bruciandosi vivo in pubblico.
Ma quale era lo scopo di quell'atto insieme atroce e vanesio? Lo stesso Luciano, che a quella scena poté assistere di persona, riferisce che quel matto, dopo essersi arrampicato sulla pira che lui stesso aveva allestito a guisa di palcoscenico, e un po' prima di decidersi a darsi fuoco, tenne un discorsetto nel quale a un certo punto affermò che "ad una vita d'oro voleva mettere una corona d'oro", ragion per cui, intendeva morire come Ercole, e come lui "vanire nell'acre".
Interpreti più moderni aggiungono che Peregrino, con la sua fantasia visionaria, sperava che il suo gesto servisse al bene degli uomini insegnando loro a sopportare i tormenti e a disprezzare la morte. Altri dotti studiosi, più vicini a noi nel tempo, assicurano inoltre che il modello che Peregrino intendeva imitare non era soltanto quello di Ercole bensì anche quello dei saggi indiani, nel cui modo di pensare e di vivere già molti altri veggenti come lui, lungo le coste del Mediterraneo, avevano scorto strette analogie con lo stile di vita dei Cinici. Ma a quel miscredente di Luciano sembrò ovvio che a indurlo a darsi fuoco in cima a quella pira fu semplicemente la smania di far parlare di sé a tutti i costi. Non sarà proprio questo il motivo per cui l'ottimo Marco ha deciso di fare un falò del suo passato di garantista?
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