Quella fame dei partiti

Dalla Rassegna stampa

Indietro tutta. Il federalismo e la sua bandiera («Voto, pago, vedo», col cittadino che verifica efficienza e costi dell'amministrazione locale) è un ferro vecchio sepolto sotto l'ignobile scandalo della Regione Lazio per l'allegra gestione dei fondi dei partiti.

Avanti tutta. «Aboliamo le Regioni», ecco un nuovo slogan. In fondo, a che servono? Sono troppe, costano un mucchio di soldi ai cittadini e foraggiano politici da avanspettacolo. Come capita spesso nel Paese dove le emozioni e le promesse corrono più svelte dei fatti (e con una campagna elettorale alle porte), è difficile distinguere e ragionare in termini di cambiamento possibile e concreto. Più facile e gattopardesco alzare il tasso di confusione in un momento di crisi tra i più difficili che la storia italiana ricordi.
Con gli auto-bonifici bancari dell'ex capogruppo del Pdl alla Regione Lazio, Franco Fiorito e la sua copertura politica di "sistema" (tranne i due rappresentanti dei Radicali nel Consiglio regionale, che hanno al contrario svelato la faccenda), il federalismo fiscale non c'entra. Il caso dei contributi che le Regioni assegnano nella totale opacità ai gruppi consiliari è assimilabile alla pagina, altrettanto scandalosa, dei rimborsi elettorali (aumentati tra il 1999 al 2008 di oltre il 1000%) che a sua volta è figlia di un finanziamento pubblico dei partiti abrogato nel 1993 con un referendum popolare ma sopravvissuto poi con la leggina sui rimborsi.

Più che ai principi fondanti del federalismo (tra i cui l'atteso parametro dei costi standard in sostituzione del criterio della spesa storica per i fabbisogni di spesa degli enti locali) occorre insomma guardare alla famelica industria dei partiti, alla «macchina che da serva si è fatta padrona» denunciata già negli anni Cinquanta da Ernesto Rossi. Passa il tempo, ma il problema è sempre quello. Va ricordato che secondo i calcoli del Sole 24 Ore la politica costa circa 23 miliardi di euro l'anno (1,7 miliardi Senato a Camera e 21,3 miliardi le altre istituzioni dello Stato). Semmai, c'è da mettere nel mirino una certa interpretazione "pratica" del federalismo all'italiana: quella che moltiplica gli aeroporti, ad esempio, o quella che allarga a macchia d'olio (5mila società con relativi consigli di amministrazione) il cosiddetto "capitalismo municipale". Ovviamente, a parte alcuni sporadici casi, senza traccia dell'anagrafe patrimoniale pubblica degli eletti e dei nominati: è operazione difficile anche mettere online le dichiarazioni dei parlamentari e proprio il capitolo dei rimborsi, guarda caso, è stato all'origine del blocco dell'anagrafe degli eletti alla Regione Lazio. Invece, contro il decreto federalista sul "fallimento" politico previsto per il presidente di regione che faccia saltare i bilanci, diverse Regioni tra cui il Lazio si sono mosse e hanno fatto ricorso alla Corte Costituzionale. Non lo vogliono.

Meglio allora smontarle o addirittura abolirle, le Regioni "fresche" di una riforma del titolo V della Costituzione che ne ha aumento le competenze in "concorrenza" con la Stato centrale? In attesa che siano le Province a mollare la presa (su questo c'è ora un impegno molto preciso del Governo Monti) vale la pena ricordare che nel 2011, per il funzionamento degli organi regionali, sono stati spesi 830 milioni, 13,8 euro per cittadino, e che da un'analisi di Andrea Garneo su lavoce.info emerge una relazione negativa tra stipendi della politica regionale, benessere economico (misurato attraverso il Pil pro capite) e andamento del mercato del lavoro nel territorio.
Dice il governatore della Campania (dove è aperta un'inchiesta della magistratura analoga a quella romana), Stefano Caldoro, che la cartina politica italiana è da ripensare e che «bisogna accorpare le Regioni, non solo per aree omogenee ma ragionando per competenze in modo da semplificare e risparmiare». Ragionando, sì, ma coi piedi per terra: perché a confronto la battaglia - non ancora conclusa - sulle Province assomiglia a una scaramuccia di quartiere e perché già ora, prima di ridisegnare i confini delle Regioni, si potrebbe fare qualcosa di concreto per allentare la sconcia presa della politica sul territorio. Come il caso Lazio insegna.

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