Quel silenzio su Marco

Mentre scrivo queste righe Marco Pannella è impegnato in uno sciopero della fame e della sete. Marco è ricoverato in clinica. È l'ennesima lotta nonviolenta per la giustizia, di cui nessuno parla. È scandaloso.
Eppure con Marco, in queste settimane, pur nell'assoluta clandestinità e ignorati dai grandi mezzi di comunicazione - servizio pubblico radio-televisivo in testa - hanno digiunato e digiunano circa diecimila cittadini, moltissimi tra loro detenuti, le loro famiglie, avvocati penalisti e rappresentanti delle loro organizzazioni, e appartenenti alla comunità penitenziari.
Il fondamento di ogni democrazia politica è costituito dal libero concorso di tutte le forze politiche alla formazione della volontà popolare, e in particolare l'accesso ai mezzi di comunicazione di massa: essenziale perché questa libertà di partecipazione alla lotta politica non sia soltanto formale e negata nei fatti, e perché sia assicurato il diritto di tutti i cittadini a conoscere per deliberare.
Se è così, assistiamo a un vero e proprio scandalo, quello di Pannella costretto, per assicurare diritti fondamentali ed elementari come quello della conoscenza, ad affrontare una prova così grave, come rischiare la propria esistenza. È incontestabile che Pannella subisca un intollerabile ostracismo da parte dei grandi mezzi di comunicazione, del servizio pubblico in particolare. Basti dire che su una "lista" di ben 1303 politici, intervenuti nelle principali trasmissioni di approfondimento politico del servizio pubblico, Marco Pannella non compare.
Con la sua iniziativa Pannella intende portare alla nostra attenzione e una situazione, quella della giustizia e delle carceri in particolare, che giustamente viene individuata come la più grande e urgente emergenza di questo paese. Propone, in luogo della quotidiana amnistia mascherata che si consuma ogni giorno, il varo di un'amnistia ufficiale: per decongestionare la situazione, "liberare" i tribunali da migliaia di fascicoli destinati comunque a essere archiviati e "guadagnare" il tempo necessario per le necessarie riforme. È una proposta che si può condividere o meno, ma a nostro giudizio quello che non si può fare è fingere che nulla accada; non si può restare ulteriormente inerti e silenti di fronte a questa gravissima situazione; chiedere che sia assicurata quell'informazione e quella conoscenza che finora sono state colpevolmente disattese è il minimo. La domanda giusta è quella che l'altro giorno poneva Avvenire a fronte della quotidiana barbarie che si consuma nelle carceri italiane: «È giusto che paia pensarci solo Pannella?». Ognuno di noi dia la risposta che può e che sa. Ricordo infine che anni fa ebbe luogo una affollata "Marcia di Natale per l'amnistia", promossa da Pannella e da quelle singolarissime figure di uomini di fede che sono don Andrea Gallo e don Antonio Mazzi. A quella marcia partecipò anche il non ancora presidente della repubblica Giorgio Napolitano. Non ho certo l'ardire di suggerire alcunché al capo dello stato. Mi auguro tuttavia, che sappia trovare i modi, in queste ore, per far sentire la sua voce e la sua autorevole opinione. Credo che sarebbe cosa giusta e opportuna.
In un paese civile il ministro della giustizia e quello dell'interno si vergognerebbero. In un paese appena civile, un po' tutti noi si sarebbe preda da un fortissimo sentimento di vergogna e di indignazione. Se, come diceva Voltaire, per conoscere il livello di civiltà di un paese bisogna misurarlo dalla situazione delle sue carceri, noi meritiamo di essere gli ultimi tra gli ultimi. I numeri testimoniano non più il disagio ma la tragedia sfiorata ogni giorno. Abbiamo in Italia 206 carceri e 44mila posti branda. Sono in galera 68mila detenuti. Quindi: 68mila contro 44mila.
E già questo dato basterebbe. Ma c'è molto altro. Dal 2000 ad oggi nelle carceri italiane sono morti 1800 detenuti di cui ben 650 per suicidio. Nello stesso periodo di tempo si sono uccisi anche 87 agenti di polizia penitenziaria. Nelle nostre prigioni sono stipati poco meno di 70mila detenuti in luogo dei 44mila. Nel solo 2010 ben 1137 detenuti hanno tentato di togliersi la vita. Gli atti di autolesionismo sono stati 5703; 3039 i ferimenti. Le carceri italiane sono un enorme discarica sociale e umana: almeno un terzo di detenuti in attesa di giudizio; oltre la metà in carcere per reati legati all'immigrazione clandestina o per violazione della legge sulle tossicodipendenze.
Contemporaneamente ogni anno circa 150mila processi anno vengono chiusi per scadenza dei termini. Per reati come la corruzione o la truffa, c'è ormai la certezza dell'impunità. Nel 2008 sono stati prescritti 154.665 procedimenti; nel 2009 altri 143.825; nel 2010 circa 170mila. Quest'anno si calcola che si possa arrivare a circa 200mila prescrizioni. Ogni giorno almeno 410 processi vanno letteralmente in fumo.
Di fatto, è un'amnistia mascherata. In una situazione come questa, chi parla di "certezza del diritto", lo si può mandare tranquillamente e lecitamente a quel paese? Il 40 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio. Sta lì, ma nessuno si sogna di stabilire se a torto o a ragione.
Cesare Beccaria nel suo "Dei delitti e delle pene", parla di «dolcezza» della pena. E gli antichi latini avevano coniato una delle più belle parole del vocabolario universale di tutti i tempi: la pietas. Chissà che fine ha fatto oggi la pietas nelle stanze del potere, nei palazzi di chi comanda e può decidere.
L'ancora in carica ministro della giustizia Angelino Alfano fino a qualche mese fa intasava le agenzie con i suoi comunicati e le sue dichiarazioni che annunciavano "entro breve", una mirabolante riforma che avrebbe risolto ogni problema. Ammiccante, dalla copertina di un settimanale di casa Arcore, garantiva che avrebbe fatto giustizia. Le cose stanno come sappiamo. Poco, pochissimo quello che è stato fatto; e quel poco, pochissimo è perfino peggiore di quello che c'era prima...
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