Quasi tre anni recluso senza che ci fosse una sola prova

Dalla Rassegna stampa

«Mi sono voltato e ho visto mia madre accasciarsi a terra. Mi avevano appena condannato, ma io ero sopraffatto soltanto dalla rabbia per quello che stava accadendo alla mia famiglia». A parlare è Fabio Bonifacio, che oggi ha 33 anni e 1.003 giorni (2 anni e 9 mesi) li ha trascorsi da detenuto. All’epoca dei fatti Fabio è un tranquillo 22enne, che raccoglie le olive a San Pietro Vernotico, nel Brindisino, lavorando dalle 5 del mattino alle 5 del pomeriggio. La sera del 26 novembre 2002, mentre un amico lo accompagna a casa in macchina di ritorno da una festa, Fabio nota un’auto abbandonata sul ciglio dello strada, con i fari accesi e gli sportelli aperti. Quell’auto gli è nota, appartiene a un ragazzo che conosce, Andrea. L’amico di Fabio si ferma, si avvicinano due ragazzi insospettiti anch’essi da quel ritrovamento. Fabio chiede loro di aspettare là (le chiavi della vettura sono ancora nel quadro) e corre con il suo amico ad avvisare il padre del ragazzo, il quale sale in macchina con loro e recupera l’auto. All’indomani il padre di Andrea, Oronzo, si reca a casa di Fabio, lo ringrazia per l’interessamento e mette a conoscenza lui e sua madre del sequestro lampo che si è consumato: tre uomini hanno condotto il figlio Andrea in aperta campagna, lo hanno minacciato con le armi e l’hanno rilasciato chiedendogli di consegnare un riscatto per evitare un trattamento ancora più severo in futuro. L’accaduto viene denunciato ai carabinieri del paese, lo stesso Fabio viene sentito più volte. Lui però non si preoccupa, è ignaro di quello che gli accadrà di lì a poco. Il padre della vittima cerca quindi abboccamenti con un pregiudicato del paese, R. R., riconosciuto dal figlio come il conducente dell’auto che lo ha sequestrato. Oronzo si rivolge a Fabio, che ha giocato qualche partita di pallone con quel tizio. Non è difficile procurarsi il numero telefonico di R.R.: in paese si conoscono tutti. Oronzo incontra l’estorsore, con il quale negozia una cifra (la richiesta iniziale di 30 mila euro scende a 5 mila). In uno degli incontri Fabio accompagna Oronzo presso l’abitazione di R.R., restando fuori ad aspettare.

Il 24 gennaio 2003 i carabinieri si recano a casa di Fabio e gli chiedono di presentarsi in caserma per una notifica. Una volta arrivato, gli viene intimato di spegnere il telefono e di raccontare la verità. Fabio sente che il clima è teso, ma ripercorre i fatti, uno per uno, come ha sempre fatto finora. Quella sera viene arrestato. Fabio è incredulo, non capisce che cosa gli stia accadendo. Viene ammanettato sotto gli occhi dei genitori, che nel frattempo sono accorsi in caserma preoccupati dal telefono spento, e viene tradotto al carcere di Brindisi senza alcuna spiegazione e in assenza dì un legale. Trascorrono alcuni giorni prima che Fabio incontri finalmente l’avvocato e il gip. Soltanto allora apprende di essere accusato di concorso nella consumazione dell’estorsione per aver rivestito il ruolo di intermediario tra l’autore e la vittima. Scorrendo gli atti del processo, non è chiaro quali siano le prove a suo carico: come lo stesso maresciallo ammette in udienza, dalle intercettazioni e dai pedinamenti non è emerso alcun elemento a carico di Fabio. Eppure, il fatto che lui abbia accompagnato il padre della vittima a casa del malavitoso proverebbe, secondo i pm, la partecipazione al sequestro. La vittima ribadisce di aver riconosciuto due delle tre persone presenti nella macchina, il padre spiega di essersi rivolto a Fabio senza subire pressioni o minacce. Il giovane è incensurato, si difende spiegando che lui non c’entra niente con gli estorsori, che ha semplicemente tentato, su richiesta del padre della vittima, di prestare aiuto in modo del tutto disinteressato. Per giunta i carabinieri si contraddicono: in udienza un maresciallo dichiara di aver fermato il ragazzo in via Lecce, un altro dice di averlo arrestato in flagranza di reato. Invece Fabio si è recato in caserma con le proprie gambe. Il 18 novembre 2004 il Tribunale di Brindisi lo condanna a 5 anni di reclusione e 600 euro di multa. Lui non si perde d’animo. «Ancora oggi devo ringraziare i miei genitori: con due pensioni minime hanno sopportato una lunga battaglia legale». In appello, in meno di due ore la corte di Lecce ribalta il verdetto: sulla base dei medesimi atti impiegati in primo grado, il tribunale assolve il ragazzo ormai 25enne con formula piena «per non aver commesso il fatto». Quel giorno, il 27 ottobre 2005, Fabio torna in libertà dopo 279 giorni dietro le sbarre e 724 ai domiciliari. Secondo la corte, l’imputato «ha meramente assunto la veste di intermediario tra gli estorsori e la vittima del reato (per incarico di quest’ultima) agendo nell’esclusivo interesse della stessa per disinteressati motivi di solidarietà umana».

Sin dall’inizio Fabio è stato trattato da presunto colpevole, ma le prove non esistono. «Ho pensato al suicidio diverse volte, ma i compagni di cella mi hanno tenuto in vita». Con la ormai abusata formula del «concorso di colpa» la corte d’appello rigetta la sua richiesta di indennizzo: Fabio avrebbe contribuito a cagionare la propria detenzione. Della sua storia si accorge la giornalista Valentina Marsella, membro dell’associazione Articolo 643. Oggi Fabio non vive più in quel paesino dove il clima era diventato irrespirabile. Lavora come metalmeccanico a Trino Vercellese e ha una bimba di 4 anni. «Le insegnerò, a malincuore, che fidarsi delle istituzioni non è sempre una buona cosa».

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