La politica disobbediente

Dalla Rassegna stampa

Ridare un senso alla politica. Restituirle, cioè, quel significato di impresa collettiva finalizzata a distribuire più equamente le risorse materiali e i beni sociali. E questo in tempi in cui la politica conosce la sua più disonorevole caduta di prestigio. A volte accade che siano eventi estranei, almeno in apparenza, a indicare dove e come le ragioni vere e profonde della politica possono essere rintracciate. Lo scorso fine settimana due fatti mi hanno rivelato la loro natura politica, politicissima, nonostante sembrassero appartenere a dimensioni tutt'affatto diverse; e nonostante richiamassero campi - quello della religione e quello della malattia - quanto mai distanti dalla sfera pubblica. Mi riferisco al film di Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone, e al congresso dell'Associazione Luca Coscioni. Partiamo da quest'ultimo.

La "Luca Coscioni" è organismo politico che più politico non si può, è aperta a chiunque a prescindere dalla scelta di partito e dal credo religioso, ma i suoi principali dirigenti, Marco Cappato e Rocco Berardo, sono da sempre esponenti radicali. Ebbene, un congresso così pienamente politico e così intensamente focalizzato su conflitti istituzionali (in materia di testamento biologico, fecondazione assistita, ricerca scientifica) ha affrontato questioni che la gran parte della classe politica teme come la peste. Per due giorni si è parlato di sclerosi laterale amiotrofica, nomenclatori, donazione di gameti, cellule staminali adulte ed embrionali, Ru486, rianimazione, neoplasie... No, non siamo a un seminario dell'istituto di chirurgia medica di Tor Vergata e nemmeno a un simposio del Policlinico Gemelli; e se quei discorsi sembrano appartenere esclusivamente al linguaggio dell'associazione nazionale dei farmacisti, e non al dibattito pubblico, è solo perché tutti abbiamo introiettato la più angusta e convenzionale concezione della politica.

L'associazione Luca Coscioni, invece, su quei temi fonda la propria azione pubblica, a partire da uno slogan limpidissimo: «Dal corpo del malato al cuore della politica». E qui sta, a mio parere, anche il segreto di una possibile politica per il tempo presente. Se infatti qualunque rinnovamento dell'azione pubblica deve partire dalla capacità di porre come centrale la persona, allora i suoi bisogni e i suoi diritti devono costituire, al contempo, la ragione e il programma di ogni soggetto che si voglia politico. Non a caso, oggi tutti i conflitti che attraversano le opinioni pubbliche dei sistemi democratici rimandano a quella centralità della persona e del suo corpo fisico (controversie intorno a questioni come fecondazione assistita e interruzione volontaria di gravidanza, sessualità e nuove forme coniugali, dichiarazioni anticipate di volontà e libertà di cura, accanimento terapeutico e dignità del morire...). È questo che impone alla politica di essere radicale. Non certo per assumere la maschera deforme del giustizialismo manettaro o quella della retorica tonitruante, ma per andare alle radici delle grandi questioni: vita e morte, appunto. Non per colonizzarle, ma per mettersi umilmente al loro servizio di quelle questioni, entro limiti rigorosamente circoscritti. Per tutelare la sfera privata della persona non per invaderla.

Anche il film di Ermanno Olmi è radicale. Certo, si presta a molte letture, ma quella politica è ineludibile, dal momento che l'autore non ha evitato alcun elemento o circostanza che consentono la puntuale identificazione della vicenda narrata, sotto il profilo geografico, sociale, giuridico. In un paese del Nord Est italiano un gruppo di stranieri irregolari cerca riparo all'interno di una chiesa in via di abbandono, ne nascerà un conflitto tra i tutori della legge che vogliono espellere "i clandestini" e il vecchio prete che vuole accoglierli. Se, pertanto, è ridicolo ridurre il film a una polemica politicistica ("contro il governo Berlusconi-Bossi"), certamente la forza etica del racconto investe tutto e tutti: la mentalità comune, il rapporto tra l'individuo e la società e tra l'individuo e la legge, gli imperativi morali e le ansie e gli incubi di ciascuno. Dunque, è un film (radicalmente) politico perché è un film (radicalmente) spirituale. E proprio perché riflette un'ispirazione più profonda della politica come generalmente intesa e, allo stesso tempo, illumina ciò che la politica può essere. E, infine, perché dà a quello che altrimenti sarebbe un ordinario conflitto politico (contro una norma ingiusta sull'immigrazione), il senso di una scelta di fondo (radicale, appunto). Ovvero: esistono valori che precedono le leggi e che dunque consentono di metterle in mora, e di contestarne la pretesa autorità. E se quei valori si fondano su una ispirazione religiosa o su una opzione morale, è possibile che entrino in conflitto con la norma. Violarla, quella norma, comporta una sanzione che va pagata: perché è esattamente questo che dà anche alla disubbidienza un suo valore.

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