Perché alzare la voce serve

Ha ragione Herman Van Rompuy, il presidente del Consiglio Ue, quando dice che un accordo sul bilancio pluriennale (2014-20) sarebbe «un segnale concreto della determinazione generale a portare l'Europa fuori dalla crisi». Come lo sarebbe, del resto, un accordo chiaro che consentisse alla Grecia di poter finalmente contare sugli aiuti promessi dopo i pesantissimi sacrifici che ha fatto e sta facendo.
Ha ragione. Ma la sua Europa non corrisponde esattamente a quella reale di ogni giorno, che sembra più capace di ingarbugliarsi su disaccordi e conflitti di interessi che di risolverli con senso di equilibrio e ragionevolezza. Non si capirebbe altrimenti come l'Italia, da sempre Paese tra i più europeisti e per di più oggi guidata da due presidenti, della Repubblica e del Consiglio, che nell'Europa vedono una missione prima che una bandiera, possa arrivare a minacciare di usare il veto nella trattativa sul bilancio Ue per non ritrovarsi costretta a pagare un conto iniquo e sproporzionato rispetto a quello di partner Ue più coriacei.
Mario Monti potrebbe decidere di alzare la voce perché, comunque la si rigiri e al contrario di quanto accade a quasi tutti gli altri Paesi, l'attuale bozza di compromesso ci danneggia su tutti i fronti: con forti tagli, al momento per oltre 10 miliardi, sul lato delle entrate, di fondi strutturali e aiuti all'agricoltura, e nessun alleggerimento su quello delle uscite (sui 5-6 miliardi annui), in particolare sul pesante contributo al rimborso britannico, circa 1 miliardo. Sia pure molto ma molto sottovoce, persino la Commissione Ue ammette che la posizione italiana andrebbe corretta ma teme, dicendolo, di aprire un vaso di Pandora. Per questo tace.
Un veto contro un bilancio pluriennale insufficiente e troppo sbilanciato nella spartizione delle risorse, in breve più favorevole alle ragioni degli euroscettici, inglesi e svedesi, che a quelle della solidarietà con Paesi e regioni in ritardo di sviluppo o tartassati da recessione, disoccupazione, ristrutturazioni e riforme, più che uno sgarbo all'Europa sarebbe un forte richiamo al suo perduto senso di responsabilità politica, economica e sociale. Che sia familiare, nazionale o europeo, un bilancio è lo specchio dei progetti e delle ambizioni individuali e collettive. Al prossimo vertice di dicembre, nel pieno dell'irrisolta crisi dell'euro ed europea, la Germania di Angela Merkel vuole aprire un nuovo cantiere di riforme, anche istituzionali. Sogna l'Unione politica dopo quelle bancaria e di bilancio. Pretende che i partner dell'euro rinuncino a tutta la loro sovranità sui bilanci nazionali affidando a un super-commissario europeo il diritto di veto sulle varie leggi finanziarie, non importa se già licenziate dai rispettivi parlamenti.
Dopo il rigore a senso unico, le riforme per la competitività i cui risultati devono attendere, mentre l'Europa del sud brucia sviluppo, ricchezza e posti di lavoro, davvero si può immaginare di privarla anche di una camera di compensazione finanziaria e solidale come un credibile bilancio pluriennale europeo? Il tutto naturalmente mentre, complici le elezioni tedesche di settembre, i negoziati sulla vigilanza bancaria unica segnano il passo, anche se un accordo rapido sarebbe necessario per attivare il fondo Esm e gli aiuti Bce.
Davvero è immaginabile che la Francia che ha appena perso la tripla A, che è entrata molto riluttante nel tunnel dei tagli e delle riforme che con il tempo dovrebbero restituirle competitività, possa accettare di cedere la sovranità sul bilancio a un'Europa destrutturata e senza bussola? Ci vuole un bilancio credibile, equo e solidale per un'Europa che si rispetti. Per questo la Gran Bretagna vuole tutt'altro. E l'Italia si prepara a dare battaglia. Mentre tra i 26 si fa strada anche la tentazione di scaricare Londra e procedere a colpi di bilanci annuali invece che pluriennali. Partita complicatissima a Bruxelles. È in gioco davvero il futuro dell'Unione. Proibito abbassare la guardia.
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