La nuova parolaccia americana

L’Europa è diventata una parolaccia, negli Stati Uniti.
È diventata un’etichetta da appioppare sugli occhi dell’avversario politico, per farlo inciampare.
Un termine in codice, con cui comunicare empatia alla pancia degli elettori, esasperati dagli insuccessi della nostra economia che sabota anche la loro.
Lo capisci quando Bill Clinton sale sul palco del New Amsterdam Theater a Broadway, insieme col presidente Obama, e dice: «Perché la ripresa non ruggisce? Perché l’Europa è nei guai, e il Congresso repubblicano ha adottato la politica economica europea. Chi l’avrebbe mai detto? Dopo anni e anni, anche decenni, in cui la destra repubblicana aveva attaccato la “vecchia Europa”, ora abbraccia le politiche economiche dell’Eurozona: austerity e disoccupazione a tutti i costi». I quasi duemila finanziatori della campagna per la rielezione di Obama riuniti in sala scoppiano a ridere, e allora Bill, che sa come sedurre la folla, infila il coltello dove fa più male: «Voglio dire, dopo tutto il loro tasso di disoccupazione è all’11%, mentre il nostro è all’8%: possiamo ancora raggiungerli, se adottiamo le loro politiche». La sala ride a applaude ancora più forte: «Voi ridete, ma queste sono le cose che dovete dire in giro. I repubblicani chiedono il voto per rigettare un Presidente che sta cercando di darci una politica economica per il Ventunesimo secolo, basata sulla crescita e il lavoro per tutti. Poi taglieremo le spese, per evitare che il debito esploda con la crescita, facendo salire anche i tassi di interesse. I repubblicani invece vogliono il contrario. Romney dice no: austerità e disoccupazione ora. E poi, se mai usciremo dalla crisi, taglieremo le tasse così tanto da far esplodere il debito e i tassi di interesse».
All’inizio della campagna presidenziale erano i repubblicani che usavano l’Europa per spaventare gli elettori e azzoppare Obama. Romney lo accusava di essere un socialista, e in Iowa ci disse che una volta alla Casa Bianca non avrebbe tirato fuori un penny per salvare il Vecchio Continente dalla sua scelleratezza assistenziale e spendacciona. Ora le parti si sono invertite, e i democratici accusano gli avversari di «europeismo», perché il Gop propone la stessa austerità teutonica che condanna l’Eurozona a recessione e disoccupazione.
Tutto questo non succede solo perché siamo in un magnifico teatro, che all’inizio del secolo scorso era diventato famoso come palcoscenico delle «Ziegfeld Follies», la rivista più oltraggiosa di Broadway. Oggi nelle serate normali, dove non vengono in visita due presidenti, qui va in scena «Mary Poppins», ma non c’è zucchero che aiuti a mandare giù la pillola dell’Europa. Infatti, quando sul podio sale Obama, la musica cambia di poco. Lui è più prudente di Clinton, perché con i colleghi del Vecchio Continente deve ancora negoziare gli stimoli alla crescita, necessari per non impantanare la sua corsa alla rielezione. E’ chiaro però che ha studiato la parte con Bill, nel nome di una rinnovata alleanza che nel 2016 potrebbe lanciare la ricandidatura di Hillary. Perciò, dopo aver elencato tutti i risultati raggiunti negli ultimi tre anni, i 4,3 milioni di posti di lavoro creati, l’industria automobilistica salvata dal fallimento, i 2,5 milioni di giovani che hanno ottenuto l’assicurazione medica, il Presidente spiega così perché la ripresa non va meglio: «La situazione in Europa sta rallentando le cose». Dunque non si tratta solo di salvare l’euro, ma il pianeta. Abbiamo ottenuto l’impensabile, riunificando il fratturato mondo politico americano: ora tutti ci criticano e tutti ci usano. Se oggi esiste una tempesta economica perfetta, l’Europa l’ha rilanciata dopo che gli Usa stavano uscendo dalla propria crisi, e l’Europa deve placarla.
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