E le nomine adesso siano un po' più trasparenti

Dalla Rassegna stampa

Che aspetto avrà il prossimo presidente della Camera? Non si sa, dipende dal faccione del suo dirimpettaio al Senato. E quest’ultimo? Dipende dagli accordi di governo, ammesso che non prevalga il disaccordo. E il nuovo capo dello Stato? Dipende, dipende: ogni casella si lega a quella accanto. «Un grande gioco d’incastro fra candidature e veti», come ha scritto Ferruccio de Bortoli (Corriere, 10 marzo). Dove però i candidati tramano nel buio, al pari dei capipartito cui spetta deciderne le sorti. E dove ai cittadini tocca spiare ogni manovra attraverso il buco della serratura, giacché per loro il portone del Palazzo resta chiuso. La democrazia disse una volta Bobbio è «il potere del pubblico in pubblico». Ma in questo caso funziona la regola contraria: per essere eletto non devi candidarti, devi anzi negare l’esistenza stessa della tua candidatura. Si comportò così perfino un uomo schietto come Sandro Pertini, quando Craxi lo indicò per il Quirinale (2 luglio 1978). Perché se sbuca fuori il nome, si brucia il candidato; e perché dunque il tuo sponsor ufficiale è in realtà il tuo primo nemico. Da qui una carambola di mosse tattiche, depistaggi, tiri mancini. Da qui una nuvola d’ombra sulle nostre istituzioni, tanto che perfino Moro (in una lettera a Nenni del maggio 1962) si dichiarò turbato per le «oscure modalità» con cui l’Italia elegge il proprio presidente. Da qui, infine, una sostanza opaca, un vischio che poi rimane appiccicato addosso all’eletto suo malgrado.

Domanda: c’è una ragione costituzionale dietro questo ballo in maschera? Un’esigenza insormontabile? Nessuna, se non quella di lasciare a mani libere i padroni del vapore. Passi per i presidenti delle assemblee parlamentari: dopotutto loro rappresentano í rappresentanti, anche se noi rappresentati gradiremmo qualche informazione. Ma il capo dello Stato no: lui rappresenta tutti, dice l’art. 87 della Costituzione. Vero, il nostro sistema non ne prevede l’elezione popolare. Nemmeno vieta però una discussione popolare sulle candidature, sui programmi, sull’interpretazione dei propri poteri che offrirà il futuro presidente. A vietarla è casomai la prassi, nome col quale noi italiani spesso designiamo i nostri vizi più incalliti. Si formò quasi per caso la mattina dell’11 maggio 1948, quando fu eletto Einaudi. Fra uno scrutinio e l’altro, Togliatti chiese un dibattito sui criteri della scelta; Dossetti gli rispose che nel Parlamento in seduta comune non si parla, si vota e basta. Tesi bizzarra, tant’è che la destra uscì dall’Aula, la sinistra reagì votando scheda bianca.

E allora diamoci un taglio a questa prassi. Orchestriamo una grande discussione pubblica su candidati anch’essi pubblici, ufficiali. Renderemmo più forte la democrazia italiana, più autorevole l’eletto. Dimostreremmo di saper raccogliere la voglia di trasparenza che sale dal Paese. E d’altronde la regola dei non candidati venne già infranta da Saragat nel 1964 (quando diramò un comunicato per chiedere consensi), da Bonino nel 1999 (con una lettera a ciascun parlamentare). Il segreto sulle candidature avrà le sue ragioni per i cardinali riuniti in conclave, dove il nuovo Papa è sempre una sorpresa. Non per la Repubblica, non per il Quirinale. Ecco: magari questa volta i partiti potrebbero sorprenderci anticipando la sorpresa.

 

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