Ma l'eutanasia non è certo un “suicidio assistito”

Dal momento che l'eutanasia viene anche definita, soprattutto dai suoi detrattori, un "suicidio assistito", è forse necessario affrontarla, senza ipocrisie, come tale.
Io credo, scriveva David Hume nel suo saggi Sul suicidio (1777), che nessun uomo abbia mai rifiutato la vita finché valeva la pena di conservarla.
Infatti, dato il nostro orrore naturale per la morte, motivi troppo lievi difficilmente potranno riconciliarci a tal punto con essa da spingerci a cercarla. Per il filosofo scozzese il suicidio è la scelta estrema, paragonabile a quella di colui che, condannato a morte, decida di anticiparla, evitando l'angoscia dell'attesa, nonché la perdita dì dignità implicita nell'esecuzione.
La casistica del suicidio ci riconduce, allora, a quelle condizioni, come la malattia mortale, che rendono la vita un peso più grave della morte stessa. Certo, l'animo umano è assai più complesso di quanto suggerisca la serenità del filosofo, e vi sono uomini e donne che hanno posto fine alla loro vita per motivi che, ai più, appaiono sconvenienti o persino futili. Chi tenta di uccidersi per amore, se sopravvive al suo gesto, un giorno forse potrà persino ridere di sé e ringraziare il suo salvatore. Per questo cerchiamo di fermare la mano del suicida e, pur comprendendo il suo dolore, non lo riteniamo più grave della morte che non ha rimedio. Forse perché sappiamo qualcosa che il suicida non sa, ovvero perché, in quel momento, vediamo ciò che il suo dolore o la sua paura, accecandolo, non vede: che una vita degna di essere vissuta è ancora possibile, che quella non è la fine. Per questo la legge non punisce il suicida, se sopravvive, ma chi, invece di scoraggiarne il gesto, lo aiuta attivamente. Invece, di fronte alla sofferenza di una malattia mortale non c'è futuro se non quello che, per il credente, trasforma quella fine in un nuovo inizio ultramondano. Del resto, innanzi al malato terminale che chiede l'eutanasia non possiamo precipitarci a salvargli la vita.
Nella maggior parte dei casi ci limitiamo a non fare niente, a lasciare che l'automatismo delle macchine e delle terapie protocollari faccia il suo corso. Lo slancio che ci fa fermare la mano del suicida qui si fa perplessità comune perché noi non abbiamo certezze con cui consolare l'insopportabile presente del morituro, ma solo, caso per caso, un debole o forte "per me" e l'inerzia del diritto e delle pratiche terapeutiche. Se noi stessi, con la scienza medica, ammettiamo che qui non c'è futuro che non sia il protrarsi per qualche tempo della sofferenza, la situazione di colui che chiede l'eutanasia, ossia di colui che riconosce la propria fine, è profondamente diversa da quella del suicida che non riconosce più il senso di quella vita di cui noi, invece, intravvediamo le possibilità future. La cecità dei suicida diventa, nel caso del paziente terminale, la nostra cecità. Forse si tratta di imparare ad accettare, con la sua, anche la prospettiva della nostra stessa fine, distinguendo il coraggio di vivere, che manca al suicida, dal coraggio di morire, che testimonia colui che chiede per sé l'eutanasia.
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