Logica ed etica

Credo nell'evoluzione, è ovvio. Non mi sarebbe possibile mettere in discussione ricerche consolidate che hanno portato mille conferme, assieme a opportune modifiche e correzioni, alle tesi di Darwin. E' pur vero che la teoria dell'evoluzione ha avuto e ha accesi avversari, ma non mi pare che essi abbiano ancora buttato giù dal suo piedistallo lo scienziato inglese. Non sono certo convincenti le idee agitate da quei variopinti oppositori che difendono la concezione creativista, perfino quella sua variante che ritiene intoccabile il racconto biblico e quindi sostiene che dal momento del "Fiat lux" alla comparsa di Adamo ed Eva nel giardino dell'Eden siano trascorsi, puntualmente, sette soli giorni. La pur conservatrice chiesa cattolica non segue questi estremisti e concede un vigilante assenso alle ragioni della scienza: con il suo formidabile magistero di governo eredità dell'Impero romano - la chiesa cattolica è più aperta alla scienza dei fondamentalisti protestanti, opponendosi solo alla cultura dell'evoluzionismo dogmatico.
Su questo terreno non ho difficoltà alcuna a seguirla, o meglio - per non offrire troppo il destro al ringhio laicista - ad affiancarla. E lo faccio mantenendo rigorosamente fede alle mie ragioni di laico. Non porto prove scientifiche semplicemente perché non ne ho, cercherò solo di mettere in fila modesti ragionamenti tra la logica e l'etica. E dunque: quando mi viene in mente un termine come "riflessione", il dubbio circa la validità complessiva della teoria dell'evoluzione si fa irresistibile. Non riesco a comprendere come l'evoluzione possa aver indotto nell'umanoide un comportamento così sfocato e insieme preciso come è quello che noi indichiamo come "riflessione", o "ripiegamento su di sé". Perché la scimmia-ominide dovrebbe essere stata spinta a "riflettere"? Quale necessità o impulso evolutivo può aver portato il primate-uomo a "ripiegarsi su se stesso", magari in un gesto o atteggiamento di preghiera? La riflessione - forse si potrebbe solo dire "meditazione" - che funzione può aver avuto nel percorso evolutivo della specie? So che qualsiasi evoluzionista di medio calibro potrà rispondermi che anche questo specifico comportamento è lo sviluppo di un qualche più remoto atteggiamento animale, magari ancora rintracciabile in forme elementari in un nostro cugino primate. E' la teoria del fiore, che si apre coi suoi colori splendenti dal bocciolo, che è un grumo biancastro senza alcuna attrattiva. Molti anni fa, infilai nel terreno di un giardinetto un seme raccolto alla base di un maestoso alloro. Vidi spuntare due pallide foglioline che negli anni si svilupparono in un albero altrettanto maestoso del padre. Nessun antievoluzionista metterebbe in dubbio la effettualità di questa crescita e sviluppo, dal semplice al complesso, dall'implicito al diversificato. Pur accettando questa indiscutibile realtà il nostro antievoluzionista negherà però che lo stesso modello possa applicarsi anche alle specie. Comunque e sempre negherà che possa essere applicato all'uomo, alla specie umana.
Leggere Aristotele attraverso Darwin
Curiosamente, credo (ma forse qui mi sbaglio grossolanamente) che questo antievoluzionista si troverebbe a essere confutato anche da Aristotele, la bestia nera, l'avversario dichiarato degli scienziati che dal secolo XVIII in poi hanno concepito e imposto il paradigma scientifico moderno. Eppure Aristotele un qualche raffronto con la teoria dell'evoluzione se lo può permettere, magari non direttamente con le teorie galileiane. Uno dei capisaldi della metafisica (o della logica) aristotelica è il rapporto tra materia e forma. Aristotele sostiene che l'individuo reale sussiste come unità (sinolo?) della sua forma ideale con la materia. Ma ogni individuo, unità "in atto" di forma e materia, diventa a sua volta materia costitutiva, "in potenza", per una ulteriore forma insieme alla quale darà realtà a un più alto individuo. Il rimando dalla potenza (materia) all'atto (forma), costituisce il divenire in una scala senza fine, poiché ogni atto diviene potenza per un atto successivo, fino all'atto ultimo, l'atto puro, cioè Dio. Non sarà proprio Darwin, ma mi pare potrebbe essere Teilhard de Chardin, l'evoluzionista cattolico.
Al laico però, in fin dei conti, tutto questo discutere interessa poco. Per lui, ciò che conta è il fatto che la "riflessione" dell'uomo possa essere da lui vissuta come una attività libera, non condizionata. Il principio di libertà cui il laico deve sempre fare riferimento non può accettare alcun condizionamento esterno: un comportamento eteronomo non è mai, per definizione, libero. E, piaccia o meno, l'uomo non può fare a meno della categoria della libertà. Non a caso è su questa categoria che oggi si confrontano diverse e opposte concezioni teologico-etiche. C'è chi la libertà la vuole "sana", "ben diretta", sorretta dalla Verità. Altri, come abbiamo appena visto, ritengono che nessun comportamento umano sia effettivamente sciolto dai condizionamenti evolutivi. Ma a me, laico, che importa? Mi basta operare "come se...". Sarò testardo, ma rifiuto le due opzioni.
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