Linee guida

Non riesco a capire le ragioni che hanno portato l'ormai ex sottosegretario Eugenia Roccella a emanare, a poche ore dalla fine del governo di cui faceva parte, una disposizione che vieta la fecondazione assistita a coppie in cui uno dei partner sia portatore di una malattia genetica. L'onorevole Roccella ha spiegato che le "linee guida" da lei inviate, per parere, al Consiglio superiore di sanità ricalcano la legge 40, che consente tale pratica soltanto alle coppie infertili o a chi ha malattie infettive che rischiano di essere trasmesse al possibile figlio.
Negli ultimi anni moltissime coppie avevano presentato e vinto in tribunale ricorsi che avevano aperto uno spiraglio a una diversa interpretazione di quella legge, ma la normativa introdotta dalla Roccella non ne fa cenno. Ribadisce invece il divieto alla diagnosi pre impianto, una prassi che consentirebbe di evitare inutili stragi di feti, inutili e dolorosi aborti. La Società italiana di studi di medicina della procreazione ha accusato la Roccella "di arroccarsi su posizioni ideologiche prive di fondamento scientifico". La disputa è aperta.
A me la vicenda ha irresistibilmente fatto affiorare un divertente ricordo di molti, moltissimi anni fa. Insegnavo in una scuola media di Subiaco, allora un povero paese per le cui stradine era più facile imbattersi in un mulo carico di bigonce che in una automobile. Il preside, un professore di matematica con più o meno sei figli a carico, arrivava da Roma, ogni giorno, guidando la sua Fiat 850 multipla nella quale ospitava altri colleghi, pendolari come lui. Io mi servivo invece della corriera di una infame, notissima ditta privata, che teneva in servizio pullman vecchi e scassati nei quali d'inverno si infiltrava la neve e che spesso si fermavano, collassati, sull'orlo della strada. Quel preside era bravissimo a congegnare gli orari di lezione di noi professori, un'operazione sempre complicatissima. Ognuno di noi, all'inizio dell'anno, gli sottoponeva i suoi desiderata: chi premeva per il sabato libero, chi esprimeva il desiderio di poter arrivare a scuola alla seconda ora, perché prima doveva accudire i figli, ecc. Lui raccoglieva le nostre richieste, spesso conflittuali l'una con l'altra, e dopo qualche giorno ci presentava l'orario delle lezioni, classe per classe. Immancabilmente, ognuno di noi professori aveva il piacere di scoprire che le sue esigenze erano state largamente accolte. Una acrobazia di cui soltanto lui era capace.
Il vicepreside era invece un prete, residente a Subiaco, scelto a quella funzione forse per dare prestigio, localmente, alla sua qualità di religioso. Ogni anno (la cosa si ripeté, mi pare, per tre anni) il bravo prete, dopo aver scorso il foglietto con gli orari appena compilati, scuotendo la testa osservava: "Ma caro preside, così lei soddisfa tutti e tutti sono felici. Troppo felici, sant'Iddio". Per lui, essere felici e soddisfatti era una condizione se non peccaminosa certo deplorevole: per lui, nella vita bisogna sempre soffrire.
Un'ingiustizia contro l'altra
Ecco, mi pare che la Roccella abbia ecceduto nel mettere in pratica i precetti del buon prete di Subiaco: guai a fare felici gli uomini, a esaudire i loro desideri, anche i più ovvi. Pare lo abbia detto esplicitamente: "Non c'è soltanto il diritto delle coppie e penso che ognuno debba fare i conti e accettare la propria realtà e condizione. Non si può rispondere a una ingiustizia naturale con un'ingiustizia legale". Penso che abbia voluto così mostrarsi zelante e guadagnarsi se non un posto in paradiso almeno un po' di umana riconoscenza da parte di chi in queste materie ha il potere, più che il diritto, di dire l'ultima parola. Forse sbaglio ma, come affermò un cattolico autorevole, Giulio Andreotti, a pensar male si fa peccato però quasi sempre ci si azzecca.
Non è difficile azzeccarci, in questo caso. Per la chiesa, la felicità non è di questa terra, bisogna inculcare nell'uomo la paura della sofferenza e della punizione, altrimenti c'è, per lui, il rischio della caduta nel male. Chi disse la sciagurata frase "Dio è morto, tutto. è permesso"? L'uomo che non è imbrigliato dal timor di Dio e dalla conseguente prospettiva di una punizione deraglia dalla buona strada, come le vecchie corriere della linea Roma-Subiaco. Di qui l'invenzione di mitologie dell'aldilà nelle quali hanno posto l'inferno, con le sue punizioni e castighi, come anche un limbo (stracolmo dei feti non battezzati che hanno insanguinato e insanguinano la storia dell'uomo e della donna) e un purgatorio dipinto in grigio ma indispensabile alla pratica delle indulgenze, piaga storica della chiesa.
Si tratta di una concezione antropologica essenzialmente pessimista, di difficile comprensione per l'uomo di oggi. Mi pare infatti che l'attuale predicazione ed evangelizzazione non ne faccia più molto uso, o almeno uso preminente. L'uomo ha meno terrore della morte, ha perso l'ossessivo senso identitario che lo urgeva ad assicurarsi la certezza di un aldilà di riscatto. Aspira piuttosto a strappare un pizzico di felicità su questa terra. Come quei professori di Subiaco che speravano di vedersi garantito un orario accomodato ai propri comodi.
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