L'industria della cultura ha un'arma in più la diplomazia dell'arte

La cultura non è solo l’elegante nutrimento per anime belle. Deposte le armi, tramontate le ideologie, i vari idealismi e folclorismi di casa propria sono l’ultimo trucco politicamente corretto del vecchio nazionalismo. La diplomazia culturale è l’ evoluzione del «soft power», vecchia categoria di conio statunitense che indica tutti i mezzi non militari con cui uno Stato s’imbelletta per sedurre e affermarsi internazionalmente. Un mix di cultura, politica e mediazione compone questa cosmesi potenzialmente salvifica per l’economia culturale italiana, su questo fronte ancora imbozzolata.
A prendere il toro perle corna è un simposio internazionale sulla diplomazia culturale (il primo) che si chiude oggi. Organizzato dal senatore Francesco Rutelli (risposta a chi si chiedeva che fine avesse fatto il leader Api: è ora presidente onorario dell’Institute for Cultural Diplomacy, primo think tank al mondo del settore, con base a Berlino) insieme a Priorità Cultura e alla Società Dante Alighieri. Protagonisti, ministri come Emma Bonino, Massimo Bray e Gaetano Quagliariello, esperti come il presidente della Biennale Paolo Baratta e quella del Maxxi Giovanna Melandri, interlocutori stranieri - rappresentanti dell’Unesco, dell’Unidroit, dell’American Academy - ambasciatori (il presidente della Dante Alighieri Bottai) e big come Massimiliano Fuksas, il premio Oscar Dante Ferretti, la ballerina biancovestita Carla Fracci, Achille Bonito Oliva, il linguista Luca Serianni, e ancora Alessandro Masi (segretario della Dante Alighieri), Antonio Paolucci, Gianni Letta, Paolo Peluffo. Enrico Letta ha promesso di garantire benzina alle idee che scaturiranno dal simposio: «Un’iniziativa come questa ha detto il Presidente del Consiglio - onora Roma e il nostro Paese».
A benedire i lavori, distribuiti tra la Sala Zuccari del Senato e la poco distante Dante Alighieri, è stato Pietro Grasso, che ha lanciato l’allarme in difesa dei nostrani beni artistici troppo spesso preda dei trafficanti: «L’Italia, immenso museo a cielo aperto - ha detto il presidente del Senato - è esposta a una costante aggressione da parte della criminalità organizzata». Un traffico «tra i più lucrativi al mondo, coi vari furti su commissione, esportazioni illecite, falsificazioni, riciclaggi». Emma Bonino, ricordando Jean Monnet («Se dovessi ricominciare, comincerei questa volta dalla cultura»), ha mostrando l’intenzione di fare politica estera con metodi culturali, e così ha garantito anche il sottosegretario alla Farnesina Mario Giro. A elencare al «Tempo» i vari focus del simposio è stato lo stesso Rutelli: «Puntare sul turismo culturale è farne il volano della nostra economia, promuovere lo studio della nostra lingua, anche approfittando del privilegio di avere papa Francesco che parla urbi et orbi usando sempre e solo la lingua italiana». Rutelli crede anche che per far girare l’ arte made in Italy non bastino lirica, spaghetti e classici latini: «Italia deve crescere in termini di industria culturale e non dimenticare le battaglie per il recupero del patrimonio archeologico trafugato». Come? Continuando la politica da lui ingegnata quando era a capo del MiBAC: «Ai musei che ci restituiranno le nostre opere in cambio daremo in prestito opere altrettanto importanti: questa linea ci ha fatto recuperare capolavori per un valore di 500 milioni di euro». Melandri saluta il momento propizio per lavorare al meticciato culturale «ora che sono finiti gli anni bui di Bush e dello scontro di civiltà», e spinge sul credito d’imposta per le attività culturali.
E mentre il transavanguardista Bonito Oliva rilancia il progetto in salsa postmoderna della promozione della nostra identità artistica, «visto che dagli anni ‘70 in poi l’ottimismo tecnologico made in Usa su cui ha tanto marciato la Pop Art è tramontato», il neoministro della Cultura Bray (in una delle sue rare apparizioni) ha dato la linea per l’azione di governo: «Rafforzare il mix pubblico-privato, liberalizzare, difendere l’identità nazionale, valorizzare straordinari strumenti come la Biennale». Paolo Baratta ha puntato il dito sulle mancate riforme pro-cultura del paese, indicando le università «scollate dal paese», i «troppi architetti», i pochi sforzi per pubblicizzare il comparto enogastronomico («un errore perché tutti siamo curiosi, quando viaggiamo, di provare i prodotti e i vini locali»). Fuksas propone di rivedere la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, «perché in questo paese si possa finalmente far entrare con facilità non solo i calciatori extracomunitari ma anche gli insegnanti di Harvard». Quanto alle ragnatele dell’italico soft power, per Gianni Puglisi «si deve cominciare dalla Dante Alighieri e dagli ottantanove istituti di cultura». Mark Donfried, direttore dell’istituto berlinese, ha messo fretta al nostro paese ancora troppo naif, perché tutto il mondo ormai - Usa, Cina, Corea del Sud - è stato svezzato alla nuova scienza della volontà di potenza, la diplomazia culturale essendo nel menù di ogni Realpolitik: strategia «che ha definitivamente soppiantato la diplomazia militare» nel ruolo cruciale di influenzare il potere mondiale. Nientemeno.
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