Lettera - Il libero stato di Pisapia e la libera chiesa di Scola

Dalla Rassegna stampa

Cara Europa, in tempi di spread, di non lavoro e di preoccupazioni per il nostro avvenire, occuparci di “matrimoni gay” può sembrare eccentrico, ma dopo lo scontro milanese tra Palazzo Marino e la Curia mi sembra opportuno che anche Europa ne riparli, perché alla fine non vorremmo trovarci con le pezze ai pantaloni e i preti in camera da letto. Mi riferisco al recente pronunciamento della curia contro l’istituzione del registro delle coppie di fatto (etero e omosex) nel Comune di Milano, e alla replica del sindaco Pisapia: noi rispettiamo la chiesa nel suo ambito religioso, la chiesa rispetti noi nel nostro ambito amministrativo. Da 150 anni si ripetono queste parole, ma il “Libera chiesa in libero stato” l’hanno cambiato in “Libero stato in libera chiesa”, con quel che ne consegue. Si riuscirà mai a raddrizzare le cose?
Alex Ghisabelli, Milano

Non lo so, caro Ghisabelli, lei chiede una previsione difficile. Specie in questi giorni dove a Roma, come le dirò, infuria il clericalismo edilizio. In Italia l’antagonismo stato-chiesa per il governo della penisola non è mai finito, solo Mussolini ci riuscì a modo suo, cioè fascista, svendendo alla chiesa tutto quello che essa pretendeva ma bacchettandola se appena osava intromettersi nell’organizzazione fascista della società. Era lo scontro fra due alte culture della modernità, quella dell’aspersorio e quella del manganello. Le parole di Pisapia riecheggiano quelle di Cavour, libera chiesa in libero stato.
Ma la chiesa è stata sempre libera di fare quel che ha voluto, perfino benedire i gagliardetti fascisti, seppellire il ras della Magliana in basilica, far scappare Marcinkus in America, lasciare per decenni i don Gelmini a pascolare: mentre lo stato (e i suoi municipi) non possono permettersi nemmeno di prospettare una soluzione pratica per tanti cittadini (vedi i registri di Pisapia o i Dico di Rosy Bindi, contro la quale fu scatenata una piazza di pluridivorziati, mariuoli, adulteri, puttanieri, nascosti dietro una cortina di mariti mogli e figli in regola): il Family day, benedetto da un cardinale che a noi ex studenti di storia ricordava il confratello Fabrizio Ruffo di Calabria, a capo dei briganti di tutto il Mezzogiorno che in nome della «Santa Fede» riconsegnarono Napoli al Borbone per mandare alla forca o alla mannaia chi aveva osato credere nelle “idee francesi”.
A me non piace che le unioni di fatto, omo o etero, si chiamino “matrimoni”, perché ogni cultura ha diritto ai suoi nomi-simbolo: e matrimonio appartiene alla cultura religiosa cristiana come ben prima era appartenuto alla cultura giuridica romana (rilegga qualche pagina del Digesto, con le definizioni di Modestino, Ulpiano e altri geni del diritto che hanno sfidato i millenni).
Ma non accetto che siano i cardinali a dirci se un governo o una giunta comunale possano o no andare incontro ad esigenze di cittadini della repubblica italiana, soggetti solo all’autorità della repubblica. Come le dicevo, mentre a Milano siete alle prese col cardinale pronosticato papa, noi a Roma siamo costretti a occuparci di personaggi che non diventeranno mai non dico papi, ma neppure parroci: come l’assessore regionale Ciocchetti (nome democristiano di tempi in cui il Campidoglio era una succursale di San Pietro). L’assessore ha presentato una norma per consentire ai parroci del Lazio di derogare al piano regolatore generale (come non bastassero le mafie del litorale e i palazzinari della capitale), costruendo insieme a nuovi edifici di culto opere affaristiche di eguale volumetria: centri commerciali, uffici, alberghi, strutture turistiche.
Insomma, sviluppare l’attitudine simoniaca che da 2000 anni i cosiddetti servi servorum dei si portano come stigma dello loro professione. Vedremo se l’opposizione di verdi, radicali, vendoliani (e i democratici?) riuscirà a impedire il nuovo sacco di Roma (il primo fu al tempo dell’ing. Rebecchini, sindaco ultra Dc della capitale). Credo invece che l’imminenza delle elezioni politiche, regionali, municipali, sia il momento buono per nuove genuflessioni. E dunque viva Pisapia, che, se non altro, ci regala il ricordo del “Libero stato”, col quale fu fatta l’Italia e poi fu messo in archivio da politici indegni.

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