L'aiuto al suicidio

L'ultima denuncia della "mancata" libertà di morire arriva ai primi di dicembre da una produttrice televisiva inglese, Geraldine McClelland, malata di cancro: a poche ore dalla sua scomparsa in una clinica svizzera, l'ormai famosa Dignitas di Zurigo, alle agenzie di stampa arriva una lettera in cui la donna accusa i politici del suo Paese di averla costretta a morire "all'estero". Suicidio assistito.
Due parole in fila che da noi sono rimaste una formula burocratica, quasi sindacale, come l'ha definito Adriano Sofri, finché non è accaduto vicinissimo a noi, finché non ha riguardato un personaggio pubblico, uno dei fondatori del Manifesto, Lucio Magri. La sua morte alla fine di novembre sarebbe avvenuta nella appena fuori porta Bellinzona; almeno, questa è la versione fornita da Emilio Coveri, presidente e fondatore di Exit-Italia, ma il rifiutarsi del presidente di Dignitas, l'avvocato Ludwig Minelli, a un'intervista con il Corriere della Sera, solleva quanto meno qualche dubbio. Ovunque sia avvenuta, questa morte ha scosso tutti: un uomo colto, intelligente, anziano ma non troppo (aveva 79 anni), che sceglie di farsi aiutare a morire perché ha deciso di scomparire (sembra che ci avesse provato da solo, senza riuscirci), perché si trova in un tunnel di disperazione dal quale non intravede una via di uscita.
Il suo gesto ha ricordato agli italiani che realtà diverse dalla nostra, pur con formule differenti, ammettono che una persona capace di intendere e di volere si tolga la vita con l'aiuto di un farmaco fornito da qualcun'altro, nel rispetto della legge. Una legge, quella svizzera, che più che esprimersi a favore dell'aiuto al suicido, lo ha depenalizzato (leggi ad hoc sono state promulgate in tre stati americani, l'Oregon, Washington e Montana, e in Europa, in Olanda e in Belgio). L'articolo 115 del Codice penale svizzero che risale al 1941 recita: «Chiunque per motivi egoistici istiga qualcuno al suicidio o gli presta aiuto è punito, se il suicidio è stato consumato o tentato, con la reclusione fino a cinque anni o con la detenzione». Ne consegue che, in assenza di motivi egoistici, chi presta aiuto al suicidio non è punibile, purché il soggetto che vuole morire beva da solo il barbiturico in dose letale sciolto in un bicchiere d'acqua (il pentobarbital non si trova dal droghiere; ci vuole la ricetta di un medico per acquistarlo). In Svizzera questa liberalizzazione, ribadita dall'esito negativo nel maggio scorso di due referendum che chiedevano di trasformare in reato penale l'assistenza al suicidio odi restringerne comunque l'accesso ai residenti in territorio elvetico, ha favorito la nascita di organizzazioni di aiuto al suicidio.
Tra queste Dignitas, fondata nel 1998 a Zurigo (ora ha sede nei dintorni, a Pfàffikon), al centro di molte polemiche perché una delle poche che accetta "candidati" stranieri, tanto da essere accusata di godere dei profitti di un fiorente turismo suicidario (l'altra che lo fa è la Exit international di Berna, ma si tratta di numeri limitatissimi).
Stando ai dati ufficiali forniti dall'Associazione (che è affiliata a Exit-Italia) relativi al periodo 1998-2010, in effetti, gli svizzeri sono stati 118, i tedeschi quasi 600, gli inglesi 160, i francesi un centinaio, gli italiani 19 (vedi tabella). Tutta la procedura, compresa la cremazione, costa 8.000 euro circa (così informa l'opuscolo scaricabile dal sito web di Dignitas); quindi, per il 2010 visto che vengono dichiarati 97 decessi, siamo nell'ordine di 814 mila euro. una cifra non indifferente.
Se poi calcoliamo quanto può aver fruttato questa casa per morire dal '98 a oggi, visto che le "procedure" sono state in tutto 1.138, si sfiorano i 9 milioni di euro. Un turismo macabramente redditizio? Forse: sta di fatto che sono le legislazioni più restrittive quelle che favoriscono migrazioni di disperati "in gabbia" nella propria vita, come doveva essere Magri.
Per Paolo Flores d'Arcais, direttore della rivista Micromega, il suicidio assistito è un diritto. Fa tutt'uno col diritto alla vita e alla libertà (così ha scritto sul Fatto Quotidiano). Sulla stessa lunghezza d'onda Mario Riccio, l'anestesista dell'ospedale di Cremona che nel 2006 aiutò a morire Giorgio Welby, malato di distrofia, arrivato a quel passo estremo dopo una lunga battaglia: «Credo che queste vicende abbiamo molte sfaccettature e risvolti complessi, ma resta il fatto che viviamo in un Paese dove non si riesce a elaborare un testo di legge che dia un minimo di possibilità di scelta ai cittadini sui trattamenti di fine vita. Un dibattito che in altri Paesi è più libero e sereno».
Nel caso di Magri, c'è anche la questione depressione; quando la si può giudicare inguaribile, o peggio ancora, come si fa a valutare terminale una persona che soffre soltanto di "umor nero"? «In questo caso il quadro si complica ulteriormente», commenta Chiara Lalli, filosofa e bioeticista. «Ritengo che la volontà del singolo sia, e rimanga, la bussola. Ma sorgono molti dubbi: quando è davvero volontà? La depressione incide? E come? Si è ancora in grado di intendere e di volere? E come lo valutiamo? Poi ci sono tutti i possibili abusi e le persone che se ne approfittano».
Ma vediamo cosa accade negli Stati Uniti, dove l'Oregon nel 1997, lo stato di Washington nel 2008, il Montana l'anno seguente, hanno promulgato leggi che regolamentano il suicidio assistito. La normativa di riferimento, ricalcata dagli altri due Stati, è quella dell'Oregon, il Death with dignity Act, che prevede precise condizioni perché un medico possa prescrivere una dose letale di barbiturici: il malato deve risiedere in quello Stato, essere capace di intendere e di volere, con una speranza di vita inferiore a sei mesi e fare due richieste verbali a distanza di almeno quindici giorni l'una dall'altra, accompagnate dalla conferma scritta di due altre persone. Non è finita: prima del nulla osta alla prescrizione del farmaco letale è poi indispensabile il consulto con uno specialista della malattia di cui soffre il "candidato" al suicidio, consulto che deve escludere una depressione grave e confermare la presenza di un'équipe di cure palliative al capezzale del malato. I dati su quante persone hanno fatto ricorso alla legge sono disponibili per l'Oregon annualmente.
L'ultimo report completo è del 2009 con 59 suicidi assistiti; per lo stesso anno sono disponibili anche i dati dello Stato di Washington (36 decessi). Interessante l'analisi della motivazione: nel 90 per cento dei casi l'elemento chiave è la perdita dell'autonomia e del senso di dignità.
Critica la posizione del presidente dell'Ordine dei medici, Amedeo Bianco: «È interessante che una legislazione non abbia portato a un ricorso disinvolto al suicidio assistito; è vero, però, che è stato costruito un corpo giuridico dove non c'è spazio per gli abusi. Resta il fatto che ritengo tutto questo antitetico ai nostri compiti e alla nostra deontologia. Visto che anche nella legislazione americana la persona deve bere da sola il barbiturico, perché io, medico, devo essere coinvolto nella sua scelta del suicidio, che tutto è fuorché un atto me dico?». La normativa dei tre stati americani, comunque, non ammette il suicidio assistito per depressione, analogamente a quella dei due Paesi europei che si sono espressi in proposito: Olanda e Belgio. Dove sembra registrarsi un calo progressivo dei casi dal 2002, anno di entrata in vigore della legge, a oggi. Calo di cui è possibile una doppia lettura: una maggiore diffusione delle cure palliative capaci di addolcire la condizione di chi "è malato da morire", o, come sostiene qualcuno, una sottonotifica?
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