L’ordine va abolito, è contro la libertà

Caro direttore, era il 1964, da due anni ero stato assunto come praticante giornalista alla Agenzia Giornalistica Italia. Fui in pratica uno degli ultimi giornalisti ad essere iscritto all’albo con il solo attestato del direttore e senza dover affrontare l’esame di idoneità all’esercizio della professione. Chi sa se lo avrei superato. Quella prova, a cui a migliaia negli anni successivi dovettero sottoporsi, non aveva di per sé alcuna controindicazione non fosse stato per quel valore simbolico di esclusività e di chiusura corporativa che ad essa veniva attribuito da chi l’Ordine professionale dei giornalisti aveva fortemente voluto. Il presidente o chi per lui, non si pose neppure il problema di richiamarmi, sarà dipeso forse dal fatto d’essere un semplice pubblicista, con il tesserino di marocchino verde e non vermiglio? Per questa ragione, nel mio immaginario di scrittore, l’Ordine dei giornalisti coincide ormai unicamente con l’incomprensibile visita ai suoi uffici per il pagamento della quota annuale, un gesto incomprensibile, dissennato, forse addirittura un atto masochistico: un timbretto circolare sul tesserino, e anche per questa volta è fatta. Già, ma a che pro?
I più romantici, i più ingenui sono contenti di avere in tasca quel tesserino perché - parole loro - «con quello puoi entrare gratis nei musei». Non ne sarei così certo. Personalmente, il tempo mi ha portato nutrire serissimi dubbi sulla necessità e le virtù apotropaicotaumaturgiche dell’ambito documento. A conti fatti, ritengo ormai che l’Ordine dei giornalisti andrebbe abolito, come tutti gli ordini professionali, di più, buttati giù come la Bastiglia, in quanto retaggio feudale del fascismo e della cultura della militarizzazione con le sue organizzazioni, siano esse l’Opera Nazionale Dopolavoro, le Massai Rurali o perfino la Scuola di mistica fascista. L’unica volta che ho bussato all’Ordine dei giornalisti è stato perché ingenuamente pensavo che mi dovessero una risposta, ho immaginato, anzi, che il suo presidente, o chi per lui, sarebbe uscito dall’atrio di piazza della Torretta, a Roma, su di un cavallo baio imbizzarrito facendomi montare dietro per raggiungere il luogo della redazione da cui ero stato ingiustamente allontanato, là dove ogni giustizia sarebbe stata ristabilita, già, ho pensato che, come il generale Custer, costui, grazie alle quote regolarmente saldate, mi avrebbe restituito il microfono che mi apparteneva, la mia dignità, così alla faccia di chi riteneva di buttarmi giù dalla finestra in quanto "ingestibile". Non è accaduto. Sarà dipeso, forse, dal fatto d’essere stato un semplice collaboratore?
L’idea che l’accesso a una redazione debba dipendere dall’iscrizione a un ordine, a un’associazione, a un registro, a una categoria mi fa tornare in mente, accanto al fascismo nostrano, tutti i guai, i paterni, le durezze, i cazzi amari che l’Unione Sovietica, con i suoi burocrati infami, fece vivere al compositore Shostakovich. Povero Dmitri, obbligato ad attendere il timbro a secco di un ente ufficiale preposto al controllo perfino delle singole note, della chiave di violino o di basso stesse. Neppure nel suo caso ci sarà mai modo di assistere alla catarsi del cavallo baio della liberazione dai satrapi della censura, del controllo. In un’epoca di familismo amorale - in cui, va detto, la sinistra primeggia con i suoi figli e nipoti migliori.- e di lobbismo clientelare ad ampio spettro politico, nel quale le maglie dell’accesso alla professione giornalistica (ma anche al semplice scrivere su un giornale) sono sempre più strette se non per i garantiti di sempre, immaginare che possano esistere delle sanzioni (bella parola che sa di fascismo: "Dio stramaledica gli inglesi" coniò il collega Mario Appellius in quel 1935) è assolutamente, dai, non fatemi cadere nella retorica libertaria, inaccettabile, è cosa che fa schifo.
La seconda volta che (professionale) sono stato cacciato da un giornale, era l’Unità, in comune però con la prima c’era che il direttore, come quell’altro, proveniva dal Gruppo L’Espresso, questa volta si chiamava però Concita De Gregorio, non ho pensato affatto di bussare all’Ordine dei giornalisti, ho preferito mettermi a ballare davanti a una videocamera per poi trasmettere tutto sul mio canale in rete, www.teledurruti.it, certo ormai che il baio del presidente non sarebbe mai uscito dall’atrio di piazza della Torretta. Basterà come argomento per innalzare la bandiera dell’abolizione immediata di un ente nocivo per ogni immaginario di liberazione e di riscatto?
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