L’inquinamento? Lo pagano le famiglie

Almeno quaranta miliardi di euro. E questo il gettito, potenziale, della riforma della fiscalità ambientale che il Governo ha appena messo in agenda con la delega fiscale, entrata in vigore pochi giorni fa. La stima è della società di consulenza Ecba Project, che ha analizzato i benefici di uno spostamento della tassazione dal lavoro all’inquinamento. Una analisi che per ora è di studio, perché i piani del Governo su questo argomento sono appena abbozzati e la materia è complessa. Ma che un dato lo presenta: il totale dei costi esterni associati alle emissioni in atmosfera di tutti i settori di attività nel 2012, famiglie incluse, ammonta a 48,3 miliardi, pari al 3,1% del Pil. Parliamo degli effetti a catena sull’ambiente, sulla salute, sul sistema sanitario e via dicendo, effetti misurabili, anche se non in maniera semplice. Insomma, l’inquinamento in Italia ci costa 50 miliardi.
Ecco, se si spostasse la tassazione dal lavoro proprio all’inquinamento, dice Ecba, si potrebbero avere almeno 40 miliardi di gettito: 17 da un’imposta sulle polveri sottili, 10 da un’imposta sulle emissioni di anidride solforosa e ossidi di azoto, 13 da una tassa sull’anidride carbonica. Facile, ma neanche troppo, a dirsi, decisamente difficile, anche politicamente, a farsi. Ma partiamo dalle tappe: la cosiddetta "delega fiscale", cioè la legge 23 del 2014, è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale settimana scorsa. All’articolo 15 prevede che entro un anno l’Esecutivo, quale che sarà, dovrà adottare i decreti necessari a orientare la tassazione verso nuove forme di fiscalità "pulita" e quindi il mercato verso modi di consumo e produzione sostenibili. Il piano è ambizioso e si inserisce nel più ampio orizzonte della riforma del fisco: si tratta, in questo caso, di rivedere la disciplina delle accise sui prodotti energetici e sull’energia elettrica, anche in funzione del contenuto di carbonio e delle emissioni di ossido di azoto e di zolfo, e poi di tassare le emissioni, in maniera progressiva rispetto al livello di inquinamento. Tutti temi che gli esperti studiano da decenni, ma che, fino ad ora, nel nostro Paese, hanno ricevuto scarsa applicazione.
In Italia, dice Ecba, c’è uno squilibrio: le aziende dei servizi e le famiglie tendono a pagare imposte ambientali - anche se principalmente parliamo di imposte sull’energia, non di tasse ambientali stricto sensu - in maniera molto superiore, in rapporto a quanto inquinano, rispetto all’industria. Per le famiglie parliamo di 24,8 miliardi di gettito contro i 15,1 miliardi di esternalità prodotte, per i servizi di 14,5 contro i 9,3 di costi esterni generati. L’industria invece è nella situazione opposta: paga imposte ambientali che corrispondono ad appena il 41% dei rispettivi costi esterni (5,2 miliardi contro 12,8, nel 2012). Perché questo squilibrio? «Il disallineamento - ha scritto Donatello Aspromonte, uno degli autori della ricerca - è dovuto sostanzialmente al fatto che il gettito dell’attuale regime di fiscalità ambientale si basa quasi esclusivamente su basi imponibili che rappresentano in maniera approssimativa quello che dovrebbe essere invece un impatto ambientale negativo provato e specifico».
In parole povere al momento il principio del "chi inquina paga" non viene applicato. La crisi, sotto questo punto di vista, non aiuta e non si tratta solo di un caso italiano. Stando all’ultimo rapporto della International Energy Agency nel 2017 il carbone potrebbe superare il petrolio come fonte di energia più importante al mondo. E anche in Germania, un po’ per la moratoria nucleare, un po’ perché si trattava di investimenti programmati, ora sono in costruzione centrali a carbone, anche se di ultima generazione, per 8 GW. Da noi, secondo una ricerca di Legambiente pubblicata a fine anno, le fonti fossili sono anche ampiamente sussidiate: 12 miliardi, dice l’associazione, tra aiuti diretti e indiretti, a carico dei contribuenti. Se proprio dobbiamo pagare, forse conviene pagare per ciò che non ci danneggia.
© 2014 Il Secolo XIX. Tutti i diritti riservati
SU