L’Europa ritrovi il suo spirito

Dalla Rassegna stampa

Con la vittoria di Obama, il modello europeo vince in America, nel preciso momento storico in cui l’Europa sembra pronta a sbarazzarsene.
Mentre Romney sosteneva che, con Obama, gli Stati Uniti sarebbero diventati come l’Italia, il nuovo presidente ha rivendicato con orgoglio un modello politico simile al nostro, che privilegia un grande patto sociale basato sulla solidarietà, all’ideologia del mercato autoregolantesi, a cui la collettività deve adeguarsi passivamente.
Alla retorica della diminuzione delle tasse e della rescissione di ogni laccio e lacciuolo per l’intrapresa privata, Obama ha opposto una visione in cui l’America dovesse riaffermare innanzitutto un primato fatto di università e ricerca, giustizia e non solo libertà, per ogni cittadino.
La straordinarietà dell’impresa del presidente risiede nella capacità di aver fatto vincere questa impostazione in un momento di crisi, quando le sirene del disimpegno portano alla fuga dell’individuo dalla comunità.
Obama ha vinto grazie a delle scelte fortemente progressive, sottolineando che, per uscire dalla crisi uniti, come un solo popolo, è necessario che tutti facciano la loro parte, in ragione della propria capacità contributiva. Il presidente ha sottratto il paese a quel ricatto finanziario, che sentiamo ripetere come una litania in Europa, per il quale una qualsiasi più equa tassazione avrebbe condotto alla fuga dei capitali. Con la tassa sui ricchi ispirata a Buffett e la legge Volcker sulla regolamentazione delle banche, il presidente ha infranto il tabù che la politica debba soccombere di fronte alla forza dei mercati. Con le riforme dell’assistenza sanitaria e del sistema formativo, Obama ha rivendicato che esiste una buona spesa pubblica che è cosa diversa dallo spreco.
Queste scelte sono europee perché l’amministrazione uscente ha cercato una mediazione vincente fra stato e mercato, come fecero i padri fondatori dell’Europa unita, per trovare un equilibrio fra il laissez-faire, che sacrificava uguaglianza e fraternità sull’altare della libertà, e lo statalismo, che realizzava un’uguaglianza nella povertà, comprimendo la libertà.
Oggi, tutti i più grandi economisti americani bocciano l’ideologia dell’austerità europea, come antidoto peggiore del male. E non sono solo più i vecchi neokeynesiani bostoniani a denunciarlo. Penso alla recente retromarcia del Fondo monetario internazionale sul moltiplicatore fiscale, per la quale si è dovuto ammettere che ogni punto di riduzione del deficit comporta 1,9 punti di riduzione del Pil, avvitando l’Europa in una spirale recessiva drammatica. O, ancora, significativa è la stessa denuncia di Draghi, che svela come la locomotiva tedesca potrebbe frenare, a causa dell’ostinazione della Merkel a non voler sostenere la domanda aggregata, spalmando il debito e concedendo sussidi all’Europa mediterranea e favorendo un aumento salariale nazionale.
Ma per il fervore ideologico dei neoliberali dell’austerità, è la realtà che deve conformarsi all’idea, non viceversa. Ecco perché propongono ancora misure vecchie risalenti all’America reaganiana. In definita, non si tratta di dividersi fra tifosi di Keynes o Von Hayek. Il keynesismo non è la panacea: non ha funzionato durante la stagflazione degli anni Settanta, ma servì per superare la depressione del ’29, con la quale la crisi attuale condivide la quasi totalità dello spettro delle sintomatologie.
Per questo motivo, tutte le forze riformiste devono intraprendere una coraggiosa battaglia politica affinché l’Europa torni a se stessa. L’antieuropeismo crescente che si registra anche in Italia, infatti, avversa soprattutto quelle politiche di tagli draconiani decisi in incontri bilaterali o a livello di Trojka. Le proposte dell’unica istituzione europea che rappresenta il popolo sovrano, il parlamento di Strasburgo, vengono invece continuamente disattese. Compito dei riformisti è portare al centro del dibattito nazionale temi che non possono essere confinati all’emiciclo di Bruxelles. Bisogna rilanciare lo spirito europeo delle origini, oramai straniero in patria, e volato su quegli Stati Uniti che, dopo aver conosciuto il monetarismo di Reagan e il bellicismo dei Bush, hanno deciso di sostenere la ripresa economica, rilanciando un grande patto sociale.
Sarebbe l’ora, dunque, di chiedersi che fine hanno fatto gli Eurobond o la riforma bancaria avanzata dal così detto Liikanen group, che potrebbe essere la nostra Volcker rule.
Oggi l’America dà una mano all’Europa. Ma quanta recessione e disoccupazione dobbiamo registrare prima che l’Europa sia pronta ad aiutare se stessa?

 

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