Intercettazioni e giustizia le spine di Monti

Sono essenzialmente due i nodi in materia di giustizia che Mario Monti - una volta superate le fibrillazioni provocate dalla riforma del lavoro - sarà chiamato a sciogliere. Due temi scottanti, ad alta tensione, ereditati dal precedente Governo e che in qualche maniera appaiono collegati sul piano politico. Responsabilità civile dei magistrati e disciplina delle intercettazioni, infatti, sono state vissute dal governo Berlusconi come una risposta alla pretesa «invasione di campo» del potere giudiziario sul terreno dell'esecutivo, se non addirittura uno strumento trasversale per orientare la lotta politica, per condizionarne l'esito. Allo strapotere della magistratura specie di quella inquirente - occorre in sostanza rispondere con altrettanto vigore, con determinazione, si sostiene.
La questione, in realtà, è più complessa. E il fallimento di ogni tentativo in questa direzione, anche quando la maggioranza di centrodestra, fresca di elezioni, godeva di ampi numeri parlamentari, lo dimostra. Riuscirà un governo tecnico, come tale slegato da interessi di parte, a districare la matassa, mediando tra esigenze contrapposte e raggiungendo un'intesa che convinca le forze politiche che attualmente lo sostengono?
La vicenda della responsabilità civile dei magistrati è una lunga storia, che si snoda ormai da un quarto di secolo nel nostro Paese. In un referendum promosso da radicali, socialisti e liberali nel 1987 oltre l'ottanta per cento si espresse a favore dell'abrogazione della disciplina allora in vigore. La legge che ne seguì (117/1988) apparve però da subito inadeguata e macchinosa, per alcuni un tradimento della volontà popolare. Alla prova dei fatti la nuova normativa ha confermato tali perplessità, se è vero che in quasi ventiquattro anni di operatività, a fronte di circa quattrocento azioni intentate nei confronti dello Stato per presunti episodi di dolo o colpa grave di magistrati, soltanto meno del dieci per cento sono state ritenute ammissibili - grazie a una diffusa interpretazione estensiva dei requisiti di legge - e le condanne si contano con le dita di una mano.
La Corte di giustizia dell'Unione europea ha, anche in tempi recenti, censurato il nostro Paese per la mancata previsione di meccanismi risarcitori da parte dello Stato in caso di «danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell'Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo», affermando che limitando la responsabilità dei giudici ai soli casi di dolo o di colpa grave l'Italia «è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado» (CGUE, causa C 379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana). La procedura d'infrazione nei nostri confronti era iniziata nel 2009, ma l'Italia non hai mai risposto alle lettere di richiesta di chiarimenti e alle diffide provenienti dall'organismo comunitario.
Il problema è reale, quindi, ma certo la soluzione più saggia non può essere costituita da un emendamento presentato in aula nel corso della discussione della legge comunitaria - come peraltro era già accaduto anche lo scorso anno, sempre su iniziativa di un deputato leghista - e approvato a voto segreto nonostante il parere contrario del Governo.
La questione va attentamente valutata e esaminata, e non affidata a un blitz parlamentare. Anche perché l'Unione europea ci chiede di allineare la nostra normativa ai principi comunitari, non già di introdurre una responsabilità diretta del magistrato che - oltre a non essere prevista all'estero (ove se mai è disciplinata un'azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato che sbaglia nell'applicare le norme) - avrebbe l'effetto dirompente di acuire lo scontro tra poteri da tempo in atto nel Belpaese. Non dimentichiamo, del resto, che le leggi - anche quelle più severe - vanno interpretate per essere applicate, e che una levata di scudi contro il potere giudiziario, una sorta di vendetta postuma da parte chi si ritiene vittima del complotto del «partito dei giudici», una resa dei conti con le fantomatiche «toghe rosse», potrebbe comunque finire per impattare contro il muro delle interpretazioni cautelative delle norme, delle letture tese di fatto a disapplicarle.
La responsabilità civile dei magistrati, insomma, non è o meglio, non dovrebbe essere - materia di duello tra poteri e istituzioni, né in questa chiave è ovviamente vista dagli organismi dell'Unione europea. Non è la quintessenza dello scontro infinito tra chi esercita funzioni vitali dello Stato, bensì l'espressione di un diritto dei cittadini, di tutti i cittadini, ai quali anche i nostri governanti dovrebbero ricominciare a pensare in maniera trasparente.
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