Giuseppe Uva ucciso in caserma

Dalla Rassegna stampa

Si fa presto a dire "un nuovo caso Cucchi". Oramai peraltro ne stanno venendo fuori a decine. C'è quello di Marcello Lonzi a Livorno, morto massacrato di botte in carcere, con la madre che fece pubblicare dai giornali le foto dell'autopsia. C'è il caso di Federico Aldrovandi, quello di Aldo Bianzino quello del calciatore Salvatore Marino. La storia di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno del 2008 nella capitale del leghismo, Varese, città natale dell'ex ministro dell'Interno Roberto Maroni, presenta però dettagli se possibile ancora più raccapriccianti: come una possibile violenza sessuale subita per ritorsione. Il ragazzo, di professione 'gruista" (ce n'è una anche sopra la lapide della propria tomba) era stato infatti l'amante occasionale di una fidanzata di un appartenente alle forze dell'ordine e questo potrebbe persino essere un movente, magari inconsapevole, del pestaggio, della violenza e poi della morte. Queste brutte storie e altre ancora, sono raccontate in un bel libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone, "Quando hanno aperto la cella" (Il Saggiatore, pagine 244, 19 euro). "Un libro che a leggerlo uno sta male", come scrive Valter Vecellio su "notizieradicali.it". Il pomeriggio del 23 dicembre 2011 da Milano i giornalisti locali vengono avvertiti di una svolta nella vicenda: Giuseppe, morto all'interno di una caserma dei carabinieri di Varese tre anni fa, ha subito sicuramente violenze e torture anche di carattere sessuale. Il tutto emerge dall'esame dei reperti. Ecco come la sorella Lucia, durante un servizio de "Le Iene" dello scorso ottobre raccontava la storia:" su tutto il fianco era blu, sono sicura che non erano i segni dell'ipostasi, io ne ho visti di morti, ho vestito mio zio, mia zia, e quei segni erano lividi. Poi vedo il pannolone. E mi chiedo: perché aveva il pannolone? Mia sorella prende il sacchetto in cui c'erano i pantaloni e li guardiamo. Erano pieni di sangue sul cavallo. Metto via i pantaloni e guardo le scarpe da ginnastica che gli avevo comprato io dieci giorni prima e che adesso erano tutte consumate. Gli slip non c'erano. Gli ho tolto il pannolone e ho visto il sangue. Gli sposto il pene e vedo che aveva tutti i testicoli viola e una striscia di sangue che gli usciva dall'ano. Da quel momento ho giurato che avrei fatto tutto il possibile per arrivare alla verità sulla sua morte, un simile scempio non può restare impunito". Ed ecco come Alberto Biggiogero, l'amico fermato insieme a Uva nella notte di quel 14 giugno 2008, mentre brillo come lui si divertiva a spostare le transenne di una piazza, ricorda quei momenti: "Uva! Proprio te cercavo stanotte! Questa non te la faccio passare liscia, questa te la faccio pagare". Le botte iniziano a fioccare subito, a tutti e due, poi vengono caricati su macchine diverse (altre due macchine, della Polizia di Stato, arriveranno subito dopo), e portati nella Caserma dei Carabinieri. Alberto, rinchiuso in una cella da solo ha ancora il proprio telefonino. Sente grida spaventose e urla di dolore nella stanza accanto, e chiama il 118, chiedendo l'intervento di un ambulanza, perché "stanno praticamente massacrando un ragazzo".

L'addetto del 118 fa una telefonata di controllo in caserma e gli viene risposto: "No guarda, sono due ubriachi che abbiamo qui in caserma, adesso gli tolgono il cellulare". All'alba sono i carabinieri stessi a chiedere un trattamento sanitario obbligatorio per Giuseppe Uva, "uno molto agitato, violento, che minaccia tutti"; alle 8.25 viene ricoverato, alle 10.30 cessa di vivere, per cause da stabilirsi. In un'altra telefonata tra operatori delle forze dell'ordine, trasmessa nel servizio de "Le Iene", viene contraddetta l'ipotesi alla base della richiesta del Tso: uno dei due addetti dice all'altro che "stanotte abbiamo preso questo Uva, ma è talmente debole che non serve una sorveglianza particolare per tenerlo a bada". Il comandante del posto fisso della Polizia di Stato all'interno dell'ospedale rileva le varie ferite e i vari lividi, segni di bruciature di sigarette in faccia, bozzi e sangue pesto dietro il collo, corpo tumefatto ovunque. E scrive: "Si soggiunge che non c'è traccia degli slip, indumento neppure consegnato ai parenti (perché probabilmente intrisi di sangue) e tuttavia non si può sottacere il riscontro obiettivo di pseudomacchie ematiche riscontrate a tergo sui pantaloni poi posti sotto sequestro con gli altri vestiti". Il 16 dicembre scorso, dopo una battaglia legale durata oltre tre anni, in cui la sorella di Giuseppe Uva, Lucia, viene persino querelata dai carabinieri locali perché aveva osato dire durante una trasmissione de "Le Iene", che il fratello era stato sodomizzato (solo così si spiegherebbe la copiosa perdita di sangue dall'ano anche dopo il lavaggio del cadavere, ndr) probabilmente con un corpo estraneo, forse un bastone, il corpo di Uva viene riesumato. I periti nominati dal tribunale di Varese, nell'ambito del processo sulla morte di Giuseppe Uva, hanno chiesto al giudice Orazio Muscato ancora 90 giorni di tempo per approfondire la perizia legale. In particolare chiedono di potere effettuare dei nuovi test sui resti dell'uomo (tra cui una Tac). È quanto emerso venerdì mattina durante l'udienza del processo che vede, come unico imputato, un medico che nel 2008 era in servizio nel reparto di psichiatria dell'ospedale di Varese, dove il 14 giugno di quell'anno morì l'artigiano varesino. E se adesso vi chiedete come mai ci sia un processo in corso, visto che la sorella si batte per aprirne uno nuovo, la risposta è semplice: all'epoca si è proceduto, ingiustamente, contro l'ultimo medico. Quello cui scaricarono Uva già morente, un povero Cristo che gli somministrò degli anti dolorifici e che fu accusato di averne così provocato la morte. Adesso forse i veri colpevoli inizieranno a capire che l'impunità per loro potrebbe finalmente finire.

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