Fede e sapere

Dalla Rassegna stampa

Ho comperato, e sfoglio avidamente, un piccolo testo di un grande autore: il testo è "Filosofia e teologia" (a cura di Paolo De Benedetti, Morcelliana, 2010), il grande autore è Karl Barth, il teologo amato anche da Pio XII. Di Barth possedevo già "L’Epistola ai Romani" nella edizione Feltrinelli del 1962, curata da Giovanni Miegge. Nessun pensatore religioso moderno, credo, ha la possente voce di Barth quando indaga il rapporto tra Dio e l’uomo, tra Cristo e l’umano. Per il teologo svizzero, tra Dio e l’uomo, o tra Cristo e l’umano, c’è sempre un distacco incolmabile. Di fronte alla filosofia idealistica o alla teologia liberale che tra Hegel e Harnack-tentano, sia pure per vie diverse, la rappacificazione del cristianesimo con la modernità, Barth assieme a Kierkegaard - afferma la natura ontologica della fede, la sua irriducibilità sostanziale all’interpretazione umana. Anche in questo libretto che esplora il rapporto tra teologia e filosofia il grande teologo conferma la loro reciproca distinzione. E tuttavia sostiene che l’oggetto della ricerca filosofica è lo stesso oggetto della ricerca teologica, Per Barth, la verità è una e una sola: "Il filosofo e il teologo possono e devono ritenere anche l’altro - al pari di se stessi - come uno che si confronta con la verità una, unica e intera nella diversità dei suoi momenti: dunque come uno che è chiamato in causa da quel fondamento uno, unico e intero - perciò veramente affidabile - che è anche l’oggetto e il contenuto, nella cui attiva conoscenza l’uomo si determina e si riconosce chiamato ad essere tale". Senza voler impicciarmi in faccende più grandi di me, definirei di stile platonico se non addirittura plotinica questa riflessione: più o meno come Plotino, essa sostiene che c’è una verità unica, ontologicamente separata dal mondo e dall’uomo, la quale si rispecchia, sempre identica a se stessa anche se diversamente colorata, nel pensiero teologico come in quello propriamente filosofico. Platonico o plotinico che sia, a me pare che il ragionamento di Karl Barth abbia le sue fondamenta in un ben determinato humus, o terreno, storico: quello della civiltà - o cultura - occidentale, plasmatasi nei secoli sulla compenetrazione reciproca del paradigma greco-ellenistico con quello cristiano. Dal primo ci viene la forza e l’autorevolezza della ragione, da questo l’imprescindibilità e assolutezza della fede: assieme possono cogliere la verità, non vi riuscirebbero da separati in casa.
 
 Le ricerche di Lévi-Strauss

 Ma possiamo assumere il paradigma della ragione greco-ellenistica, di quella filosofia, con un qualcosa di assoluto, di non-storico? Penso alle ricerche di Claude Lévi-Strauss a partire dallo studio delle strutture sociali e della parentela degli indiani Nambikwara, Per Lévi Strauss non esiste un pensiero "selvaggio", mitico e irrazionale, distinto e lontano dal pensiero "colto" dell’occidente. Ogni pensiero, o meglio ogni sistema culturale, nella diversità e singolarità del suo linguaggio, non è che la manifestazione di un sistema di strutture inconsce identiche per ogni uomo. Ogni cultura esprime questa struttura profonda attraverso sue specifiche categorie, forme, sistemi logici, relativi ciascuno al suo tempo. Oggi, grazie alla globalizzazione, il pensiero razionale degli uomini tende a divenire, sempre più, un "pensiero unico", recuperando magari proprio quel sistema di strutture profonde di cui parla Lévi Strauss. C’è anzi da scommettere che il numero di questi uomini, raziocinanti in forme sempre più ravvicinate quando non identiche tra loro, sia destinato a crescere. Costoro si intenderanno perfettamente quando discuteranno di matematica, di fisica, di tecnologie varie. Potranno farlo in nome della loro identità profonda, strutturale nel senso indicatoci da Lévi-Strauss, senza dover passare per la mediazione né della filosofia grecoellenistica né della fede? Chi può escluderlo? Colui che pensa di dover continuamente confrontare la ragione con la fede (cristiana, per intenderci) non avrà così nulla per cui differenziarsi dal suo interlocutore, non potrà mai pretendere di essere in qualche modo meglio posizionato per elaborare pensiero e logica. E allora su che cosa il cristianesimo può fondare la sua speranza, la sua esigenza di espansione, la sua vocazione missionaria? La laicizzazione, sia pure nelle forme indicateci da Lévi-Strass, sembra poter pretendere al dominio assoluto sul mondo. E qui potrebbe tornare d’attualità, almeno come speranza del credente, il pensiero di Barth, quando ci avverte che il cristianesimo (quello della croce di Cristo) deve essere irriducibile alla modernità. Ma a questo punto interviene lo storico, il critico, l’esegeta biblicotestamentario, il quale ci assicura che la figura del Cristo morto sulla croce e risorto non ha fondamento storico ma è creazione, mitopoiesi del kérigma della comunità cristiana primitiva. Un bel pasticcio, insomma, che vorremmo volentieri lasciare agli esperti (anche se gli esperti sono anche essi inadeguati a parlare della fede di cui ci parla Karl Barth

© 2010 Il Foglio. Tutti i diritti riservati

SEGUICI
SU
FACEBOOK