Le false credenze sulla rete

Dopo avere troppo a lungo ignorato o frainteso la rete, si è diffusa la credenza che la politica ne sia improvvisamente divenuta succube. E che, di conseguenza, decisioni complesse come l’elezione del nuovo capo dello Stato dipendano dagli umori sempre mutevoli dell’opinione pubblica istantanea che si esprime sui social media. Senza questa continua esposizione al tribunale popolare 2.0 «Marini sarebbe diventato Presidente della Repubblica», ha argomentato Luca Soffi, direttore del Post. «La rete è stata decisiva», ha aggiunto l’esperto di nuovi media Giuseppe Granieri. E del resto, svariati esponenti politici sembrano esserci cascati. Dal leghista Roberto Cota, che a Porta a Porta ha detto e ripetuto che «non si può eleggere un presidente della Repubblica su Twitter», al presidente del Consiglio, Mario Monti, che proponendo il nome di Annamaria Cancellieri ha affermato, come a volerlo giustificare: «Non abbiamo scelto attraverso la Rete, ma è come se così fosse avvenuto». Nel mezzo la pidiellina Laura Ravetto, che ha motivato il suo no a Romano Prodi rispondendo a un giornalista: «Vuole che le mostri Twitter?» (come il suo elettorato fosse lì dentro, nello smartphone); e il costituzionalista Pd, Stefano Ceccanti, per cui «i grandi elettori sono connessi alla propria base tramite Facebook e Twitter, e hanno meno autonomia del solito». Sarà, ma sugli ‘influentissimi’ social media non si sono registrate campagne virali di sorta per il Professore né per un bis di Giorgio Napolitano: anzi, per quest’ultimo le analisi di Vincenzo Cosenza, di Blogmeter, mostrano giudizi prevalentemente negativi. Eppure entrambi i nomi sono stati proposti. Se ne sono viste eccome, invece, per Emma Bonino prima, e per Stefano Rodotà poi. Ma non hanno sortito alcun effetto.
Strana capacità di ascoltare, quella dei «pazzi che twittano» (Giuliano Ferrara). E strana limitazione dell’«autonomia» dei «grandi elettori», quella che non li vincola. Viene da pensare che o la percentuale di parlamentari con l’occhio sempre sul telefonino sia sovrastimata, o che in ogni caso non conti abbastanza per tradurre il proprio bisogno di consenso online in azioni politiche. Ma il problema non è che la classe dirigente ascolti troppo i cittadini, in rete o altrove: è che non li ascolti affatto, preferendo brigare nelle segrete stanze. Motivo per cui è sulla retorica della partecipazione che Beppe Grillo ha costruito il suo successo. Senza per questo concludere che sia «dovuto a Internet», o che più in generale le ultime elezioni si siano giocate «in Rete»: i dati dicono che non c’è niente di più falso di questa smania (anche mediatica) di ridurre la complessità dell’attuale situazione sociale a una questione tecnologica. Così, pur se i controfattuali non sono dimostrazioni, è lecito ipotizzare che il partito democratico sarebbe imploso anche senza la marea di critiche su Internet, perché i suoi problemi vengono da molto più lontano; che la questione capo dello Stato sarebbe stata ugualmente intricata per l’inettitudine dei partiti; e che l’opinione pubblica avrebbe, come sempre ha fatto nella storia, trovato un (altro) modo per esprimersi - la crisi non scompare in 140 caratteri. A questo modo le questioni non si affrontano, ma banalizzano. Rodotà diventa il candidato «scelto dal web» e quindi, come dice Roberto Fico, da «tutti gli italiani» nonostante la loro volontà si sia espressa in una consultazione online senza tutte le garanzie democratiche che invece si sarebbero ottenute affrontando di petto la vera questione, non a caso assente dalle analisi dei guru di Internet: l’elezione diretta del presidente della Repubblica.
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