I dimenticati della psichiatria giudiziaria Dopo Basaglia

Pubblichiamo qui la postfazione del disegnatore al libro di Maria Antonietta Farina Coscioni, da oggi in libreria: «Matti in libertà. L'inganno della legge Basaglia» (Editori Riuniti), storie di internati negli Opg.
Come disegnatore politico «compulsivo», volevo dirvi che non abbiamo ancora una associazione, ma siamo in tanti, intendo Ellekappa, Altan, Vauro, Vincino, che rappresento tutti idealmente. (...).
La caratteristica di noi satirici è che non riusciamo mai a prendere sul serio le cose «serie» che ci vengono proposte. Dobbiamo sempre guardarvi dietro, magari capovolgendole, amplificandole, storcendole in modo da far uscire, se esistono, ipocrisia e falsità.
Sono figlio di due famiglie contadine, una del sud e l'altra toscana. Mio padre proviene dal bracciantato lucano, e allora si finiva o nei carabinieri o nei preti. Lui è diventato carabiniere. Il nonno, toscano, anarchico, mangiapreti, seguace di Spartaco Lavagnini, col fascismo non prese la tessera e perse il posto di lavoro. Quando sua figlia si sposò con un carabiniere, quasi morì d'infarto.
L'ACUTA MAESTRINA DI CAMPAGNA
Quando arrivai a frequentare la quarta elementare in pluriclasse, incontrai una dolce e giovane maestrina al suo primo impiego. Per mia sfortuna costei si innamorò della mia intelligenza, o almeno di ciò che lei colse come intelligenza, e delle mie capacità di disegnatore e credette di aver incontrato un piccolo genio. Lei ne parlò ai miei genitori e li convinse a farmi saltare la quinta preparandomi a fare l'esame di ammissione alla prima media. I genitori erano felici del figlio genio, a volte in Toscana, pensavano, capitava!
Superato l'esame entrai alla scuola media «Giosuè Carducci». Non sapevano che era la scuola bene di Firenze. Insegnavano i professori più vecchi, tutti formati nel ventennio.
Siccome stavamo in piena campagna, mi alzavo verso le sei ed ero, con mio padre, a Firenze, a un quarto alle otto. Fino alle otto e mezza stavo con i piantoni, alle garritte della caserma che era lì vicino.
A scuola ero più piccolo degli altri di un anno e loro usavano un linguaggio... Una volta uno mi ha chiesto: «Mi sembra di averti già visto, non ci siamo conosciuti alla Pergola?». «La pergola di chi?», ho chiesto io, che conoscevo solo la pergola dell'uva davanti ai casolari.
Il mio compagno di banco parlava già bene il francese, era figlio di un medico, e la prima cosa che fece, in segno di amicizia, fu quella di segnare con il gesso la metà del banco: la sua e la mia e guai a chi sconfinava. Poi mi chiese: «Ma tu in Corea, da che parte stai, con gli americani o con i comunisti?». Anche lì, come sapete, esisteva una riga tracciata con il gesso, si chiamava trentottesimo parallelo. «Tu?», gli chiesi a mia volta. E lui con aria scontata rispose: «Con gli americani!». Mi venne spontaneo di fare la scelta opposta alla sua e quella fu la mia prima dichiarazione di appartenenza a una precisa area politica. I professori comunque erano peggiori di lui e da genio che ero fui trattato come un completo imbecille.
IL CONFINE SUL BANCO
Mi hanno davvero tormentato.
«Adesso parliamo del complemento oggetto, inutile chiederti cosa è, vero, Staino?», mi dicevano. Io sicuramente lo sapevo ma, messa così, mi intimidivo e rimanevo zitto. Il professore di Lettere era un ex ufficiale della prima guerra mondiale e ci leggeva anche le sue poesie sul Carso. Una volta gli saltò la dentiera, per vendetta divina, pensai.
Fui bocciato persino in disegno, poi seppi che era successo anche ad Einstein, lui in matematica, naturalmente. Feci venti giorni di forca.
Ero disperato, non sapevo cosa fare. Trovavo scuse per tornare a casa prima: morte di un professore, funerale, caduta dell'intonaco di un soffitto. A casa la presero meno peggio del previsto. Mia madre era venuta a parlare con quel professore che le disse: «Ma si rende conto, signora, come fa il figlio di un contadino a frequentare la scuola media?».
Mia madre si mise a piangere e mi ritirò dalla scuola.
I miei misero su una latteria e cominciai a fare il lavoro di garzone portando il latte in tutto il quartiere, ma i miei problemi non migliorarono. Mi prendevano le crisi di nervi sempre più frequentemente. Fu così che, su indicazione del medico condotto, cominciai a frequentare San Salvi, l'ospedale psichiatrico di Firenze, e l'ambiente generale di questi medici, predecessori di quelli che ho qui davanti adesso.
UN FOGLIO COME CALMANTE
Dovevano scoprire come mai un bambino di dodici anni, di famiglia tranquilla e affettuosa, dava fuori di matto urlando come un ossesso nei momenti più impensabili della giornata. Ma non mi andò male: non c'era ancora Carmelo Pellicanò, ma trovai persone che, almeno, non mi ricoverarono. La cosa incredibile è che l'unica cosa che mi calmava in quei momenti, era il disegno.
Quando avevo crisi di paura chiedevo un foglio e al primo segno mi sentivo liberato, tranquillo: era la mia droga. Questi momenti rimandavano forse a mia madre, ai momenti di intimità con lei quando da piccolissimo, visto che mio padre era in guerra, giocava con me a ridisegnare le illustrazioni dei libri di fiabe.
Da grande ho scoperto che questa passione poteva essermi utile non solo sul piano della serenità mentale ma anche per rapportarmi con efficacia con il mondo esterno. Con questo mio raccontare attraverso il disegno potevo dire quello che non mi andava, criticare e urlare la mia indignazione, dare un piccolo contributo contro l'ingiustizia nel mondo. È stata una gran bella scoperta e ancora oggi, grazie al cielo, nonostante i miei settant'anni, vivo ancora di queste emozioni. Quando mi chiedono: «Come si fa a fare una vignetta tutti i giorni» mi verrebbe voglia di rispondere: «Come si fa a non farla?».
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