"Dialogo con Di Battista sulle alternative al terrorismo"

Dalla Rassegna stampa

Sto entrando in un percorso difficile per due ragioni. Perché, in contrasto con le tante improvvisate di Ferragosto, il testo di Di Battista è scritto bene, con un vero e non provocatorio desiderio di comunicare una riflessione importante (poi cercheremo di capire se è giusta o sbagliata). E perché se n’è occupato, con lo stesso tipo di attenzione e cautela, Marco Pannella. Anche con lui avrò qualcosa da dire. Ma il suo intervento ha spostato il dibattito dalla concitazione alla riflessione e dal patriottismo improvvisato alla ricerca vera di un altro modo di guardare in faccia la tragedia. Non so se lo ha trovato, ma sottrarsi agli scatti di automatismo mediatico è importante. Una cosa si nota subito. Sia Di Battista sia Pannella hanno scritto quel che hanno scritto ai tempi di Papa Francesco, che ha avuto il coraggio di rimuovere alcuni luoghi comuni. Perciò, anche rischiando il più pericoloso e doloroso malinteso, tutti e due hanno preso in mano un tabù e hanno cercato di vederlo - per capirlo da tutte le parti, compreso ciò che viene sempre e subito (comprensibilmente ) rifiutato. L’intuizione importante è che c’è qualcosa che non va nel modo di capire e valutare uno dei problemi più odiosi e crudeli del mondo, senza assolvere o giustificare il problema, ma parlando di noi. Hanno detto entrambi: il terrorismo è come l’Ebola. La malattia è orrenda, ma la via d’uscita la devono trovare i sani e gli esperti, non i morenti.

La rissosa conversazione che s’è accesa intorno alle due affermazioni di Di Battista e Pannella ha accumulato detriti, sul percorso del difficilissimo tema, di cui è bene liberarsi perché son parte della confusione, anche di quella accumulata con buone intenzioni. Primo: non tutte le insurrezioni, anche quelle spietate e violente, e anche quelle che contengono atti e gesti crudeli contro persone innocenti sono terrorismo, perché altrimenti lo sarebbero tutte le guerre, giuste e ingiuste (se ce ne sono di giuste). La parola è stata molto rapidamente invalidata e gettata nel cesto delle teste politicamente tagliate (una vera carneficina fra gli esperti politici americani e inglesi che si opponevano alla guerra in Iraq, ai tempi di George W. Bush e di Tony Blair) usando sistematicamente la parola "terrorista" per ogni atto di resistenza a quella guerra in Iraq. E per questo il New York Times traduceva i comunicati militari, che definivano qualunque atto di guerra come compiuto da "terroristi" con la parola "insurgent" (ribelle, ndr).

Secondo: non sempre, e neppure molto di frequente, si può definire il terrorismo l’unica arma a disposizione di un popolo privato di ogni altro mezzo per far valere le proprie ragioni. È possibile che qui, più o meno conscio, vi sia un pregiudizio anti-Israele, che viene visto, secondo la descrizione araba, come una grande potenza ingiustamente egemone, invece che un piccolo Paese circondato da un subcontinente ostile, ricco e armato (tutti i Paesi arabi), che può essere distrutto in un solo giorno da un solo ordigno, in ogni momento. Non è un segreto che, nonostante violentissimi episodi di guerra (e dopo una serie di guerre subìte e di tentativi di pace fatti e celebrati) la rete dei contatti e dei dialoghi fra Israele e i palestinesi è quasi continua. I soli atti di terrorismo isolati da un contesto statuale e politico che si ricordino nel nostro tempo sono quelli religiosi americani (Waco, Oklahoma City, bombe alle cliniche ginecologiche, assassinio di medici abortisti) e quelli dell’Ira di Belfast e dell’Irlanda del Nord, entrambi chiusi in capsule del tempo, fino alla loro consumazione (per la capsula religiosa americana restano dubbi). Certo non è stato isolato (e unica risorsa di lotta) il terrorismo di Osama bin Laden che sappiamo dotato di vasti mezzi finanziari e di una rete internazionale che rimane - quanto a legami, fini, alleanze e disegno politico - tuttora sommersa e misteriosa.

Terzo: Pannella, nel suo intervento in difesa di Di Battista, ha ricordato il suo impegno a tentare il dialogo, ai tempi delle Brigate Rosse, che aveva, come io lo ricordo, soprattutto lo scopo, coraggioso e solitario, di evitare leggi speciali e limiti autoritari che poi non si rimuovono più. Alla fine di quella tragica avventura abbiamo poi scoperto di non sapere quasi niente di quella organizzazione e di quel terrorismo e - se era uno schermo - che cosa schermava. Le voci senza pronuncia e senza accenti delle telefonate che annunciavano morte sono tutto ciò che ci resta di umano di quei giorni. Molta gente è in giro e vive civilmente, scontate le pene, nello stesso Paese in cui quelle vicende sono state compiute, ma nessuno ha detto da chi e perché e per decisione di chi, è stato ucciso Aldo Moro.

Quarto: è bene tenere in mente (se non altro sulla base dei buoni libri di autori professionalmente attendibili, come John Le Carré) , che vari settori di tanti governi sono sempre in contatto con gruppi attivi nel traffico di armi, nell’organizzazione di attacchi a governi e in ciò che a noi appare terrorismo estremo e disperato. Alcuni fatti restano per sempre inspiegati, come la feroce esplosione nella discoteca di Bali. Altre avvengono in continuazione con un numero di morti quasi sempre altissimo (la catena, che dura tuttora, di autobombe in Iraq) senza che traspaia un senso, un filo, o un riferimento da cercare e agganciare. È prevedibile che l’Afghanistan non avrà, dopo "la fme della guerra", una sorte migliore. Eppure si sa che servizi americani (e probabilmente inglesi, francesi, forse anche italiani) sono in contatto con i talebani. Per la natura di questi servizi non ne sapremo mai i risultati. Quinto: eppure è seria e importante la domanda di Di Battista (perché non tentare il dialogo?) e la riposta di assenso di Pannella. Quel tanto di illusorio e di utopistico che le due frasi contengono, apre la strada a uno sguardo diverso che non vede sempre e soltanto guerra. Come Obama ha fatto (con un rischio altissimo) verso l’Iran e Francesco sul Kurdistan.

 

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