Di fronte agli stati imbelli, la Bce non può non intervenire

Pochi giorni fa il voto parlamentare tedesco a favore del Fondo salva stati è stato salutato dagli osservatori come il colpo liberatorio atteso da lungo tempo, il pestone sul pedale che semina definitivamente i timori sulla tenuta dell'Eurozona. È realmente così? Gli eventi di queste ore, come le palpitazioni per le scelte di piccoli stati come Malta e la caduta del governo slovacco sui nuovi poteri del Fondo salva stati, trasmettono segnali di altro tipo. Diversi esecutivi dell'Eurozona hanno infatti rivelato perplessità inattese nella gestione della crisi dell'euro, e lo stesso voto tedesco è arrivato tardi e con modalità che non suscitano - a ben vedere - grandi entusiasmi. Il meccanismo delle ratifiche da parte dei singoli membri dell'Euro è lento ed è l'equivalente di un labirinto, dove è possibile perdere l'orientamento e dissipare tempo con enorme facilità. Un nodo, questo, messo a nudo efficacemente dall'italiana Emma Bonino e dal "gruppo dei 10" - ex premier, presidenti, politici e personalità di rango - riuniti in queste ore in un'iniziativa promossa dal magnate di origine ungherese George Soros dedicata all'euro: "Non si può avere una moneta unica e poi 17 ministri dell'Economia e delle Finanze che devono mettersi d'accordo dopo trattative infinite sulle misure (la prendere". Il caso della Germania, per l'importanza che questo paese ha in Europa e nell'euro, è particolarmente emblematico.
Come l'Angelus Novus di Paul Klee, Berlino procede in avanti con il volto girato all'indietro. L'accordo approvato dal Parlamento tedesco non è che la ratifica di quanto deciso due mesi fa, un lasso di tempo molto, troppo dilatato in periodi di crisi acuta. Eppure non dovrebbe contare tanto la ratifica di scelte già prese, quanto il semaforo verde a un potenziamento significativo (più soldi) della dotazione del fondo.
La vera domanda è quanto sia disposta a spendere la Germania, vero leader dell'Eurozona, e quale prezzo Berlino attribuisca alla propria leadership sul resto d'Europa. Qui, tuttavia, le cose si complicano. In una scena politica dove il governo deve far approvare dal Parlamento ogni decisione critica - aveva fatto scandalo un dossier governativo riservato che ipotizzava una delega "carta bianca" al governo -nulla è certo. La maggioranza è spaccata.
Da un lato c'è chi assicura che al Fondo non serviranno altri soldi. Dall'altro c'è chi, presagendo il contrario, ha già chiesto di accorciare i tempi del meccanismo di stabilità permanente (European stability mechanism), il cui inizio è previsto solo nel 2013. Lo scopo è quello di evitare nuovi, interminabili confronti sulle garanzie richieste ad Atene, e soprattutto il passaggio attraverso le forche caudine del Parlamento, riaffermate dalla recente sentenza della Corte Costituzionale tedesca.
Berlino però è imbrigliata in una architettura istituzionale tanto complessa quanto poco pratica. Concepito nel secondo Dopoguerra, come quello italiano, il sistema tedesco è un intricato gioco di pesi e contrappesi che sfavorisce governi forti a beneficio di coalizioni parlamentari. Il parlamento è un interlocutore cruciale, e sul suo pieno coinvolgimento vigila la Corte Costituzionale, che censura con puntualità e severità ogni tentativo di disintermediazione. Un meccanismo, questo, che è stato ideato con l'idea di scongiurare il riproporsi di uomini forti, ma rivela seri limiti di manovrabilità in fasi delicate come quella attuale. La cancelliera Angela Merkel è infatti alle prese con maggioranze risicate e mobili, e deve dedicare energie enormi a un esercizio quotidiano di analisi degli umori parlamentari, a loro volta molto concentrati sui segnali provenienti dall'elettorato.
Quello tedesco è a tutti gli effetti un vortice di caffelatte e sondaggi, che sembra fatto apposta per schivare decisioni energiche. Helmut Kohl, si potrebbe pensare, ci aveva abituati ad altro, ma bisogna stare attenti a non ingannarsi: il carisma di Kohl e il comodo ombrello americano durante la Guerra fredda facevano sì che i governi europei non fossero chiamati singolarmente a scelte forti, e le percezioni esterne sulla risolutezza tedesca risultassero falsate.
Oggi il paradossale risultato dell'ímmanovrabilità tedesca è che le decisioni "forti" non possono essere assunte dagli stati membri della Ue. A svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza per ora non può che esserci il tandem tra Commissione e Banca centrale europea, con quest'ultima che predica rigore ma nei fatti tiene in piedi l'Eurozona mediante l'acquisto di debito sovrano.
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