Dalla settimana scorsa le lobby sono più forti

Dalla Rassegna stampa

Mentre veniva sostituito da Renzi con la motivazione di non fare "le cose", il 21 febbraio il governo Letta portava a casa una misura cui al suo insediamento aveva dedicato molta enfasi: la riforma del finanziamento dei partiti. È strano che, nella difesa del suo governo, Letta non vi abbia dato tanta pubblicità quanta durante l’estate, in cui sembrava quasi cavalcare il vento grillino. Ne ha parlato poco anche la stampa: del resto è la noiosa approvazione di una legge, mica un’interessante dichiarazione. Ma l’omissione più grave è quella contenuta nel decreto stesso.

La riforma Letta modifica molto la logica e la prassi del finanziamento dei partiti. Con il vecchio sistema, nel 2013 i partiti hanno ricevuto finanziamenti pubblici per 91 milioni di euro, sotto forma di rimborsi elettorali. Inoltre, molti partiti ricevono un contributo mensile dai loro eletti, da considerarsi indirettamente una forma di finanziamento pubblico. Con il vecchio sistema, d’altra parte, nel 2011 i partiti hanno ricevuto in totale 37 milioni da privati, di cui ben 20 milioni da donazioni di alto valore, comprese tra i 10.000 e i 50.000 euro. Sempre nel finanziamento "privato" dei partiti dovremmo inserire anche le spese che i candidati sostengono di tasca loro per le campagne elettorali. Ad esempio per le elezioni regionali (molto costose perché ci sono le preferenze) nei 30 giorni precedenti le votazioni ogni candidato può spendere fino a un massimo di 250.000 euro, e certamente non spende meno di 50.000 euro. Questa è una forma di finanziamento privato che impatta sulla selezione, per censo, dei candidati.

La riforma Letta appena approvata abolisce i rimborsi elettorali e inserisce la possibilità per i contribuenti di devolvere a un partito a loro scelta il 2 per mille delle loro imposte sui redditi, come già accade per le confessioni religiose (8 per mille) o il terzo settore e la ricerca (5 per mille). Con questo sistema, la previsione di spesa per il 2014 è di 31 milioni, e al massimo il complesso di tutti i partiti non potrà ricevere più di 61 milioni l’anno. È stata inoltre potenziata la possibilità per privati e aziende di detrarre dalle imposte sui redditi le donazioni ai singoli partiti. Nelle previsioni del governo ci si attende una spesa, sotto forma di minori entrate fiscali, di 21 milioni l’anno a partire dal 2015. Con la riforma Letta, l’accento passa dagli elettori dei partiti ai loro redditi. Dunque, prima avevamo un sistema in cui il finanziamento pubblico dei partiti era preponderante e proporzionale ai voti ricevuti. Ora, abbiamo un sistema in cui si auspica che il finanziamento privato acquisti almeno lo stesso peso, se non più, di quello pubblico, e per ogni partito il finanziamento pubblico diviene proporzionale ai redditi dei suoi sostenitori. L’omissione sta nel fatto che, nonostante il passaggio da pubblico a privato, e dai voti ai redditi, governo e parlamento non hanno ritenuto che un tale nuovo sistema richieda (finalmente anche nel nostro Paese!) una regolazione pubblica delle attività di lobby, a parte blande norme sulla trasparenza dei finanziamenti.

Nonostante per qualche ragione il termine lobby in Italia sia associato a depravazioni delle democrazie più degenerate (come la corruzione, i brogli elettorali o la regolazione dei conflitti d’interesse), il tentativo di far pesare i propri interessi nell’ambito delle decisioni pubbliche è non solo legittimo ma importante perché gli eletti davvero tengano conto di cosa la fantomatica società civile pensa e desidera. Amnesty International fa lobby per i diritti umani, le associazioni Lgbt per la parità di diritti, i comitati locali per gli interessi di un territorio. Questa diventa però una degenerazione quando la possibilità di essere ascoltato dipende dalla capacità di pagare. Consideriamo ad esempio gli Stati uniti, forse il più importante paese dove - come nelle intenzioni della nostra riforma - il finanziamento privato dei partiti è preponderante. Lì, se i candidati presidenti ricevono finanziamenti privati oltre i 50.000 dollari, devono rinunciare ai fondi pubblici, che al massimo arrivano "solo" a 91 milioni di dollari, per i due principali candidati. Non per niente, nelle ultime elezioni (2012) hanno rinunciato al finanziamento pubblico sia Barack Obama che Mitt Romney. Nelle ultime elezioni per il Congresso, i contributi pubblici sono stati in totale solo di 21,1 milioni di dollari, mentre i candidati hanno speso di tasca propria 68,5 milioni. I soldi veri sono venuti da altrove.

Nonostante la crisi del settore immobiliare e dei mutui, in 14 Stati il settore delle costruzioni è stato il primo finanziatore della politica americana, con 154 milioni di dollari donati a candidati, sia repubblicani che democratici. Con il boom del gas a estrazione idraulica (shale gas), in 12 Stati le industrie dell’energia sono state le prime finanziatrici, con 99,7 milioni; e, con la riforma sanitaria di Obama ancora in discussione, in 13 Stati la sanità è stata il primo finanziatore dei candidati, con 120,9 milioni di dollari. La povera finanza è al primo posto tra i finanziatori "solo" in 4 Stati, ma ha speso ben 179,2 milioni di dollari. È appena il caso di ricordare che tre anni fa negli Stati uniti il settore delle costruzioni, quello della sanità, l’energia e la finanza, erano gli ambiti oggetto di maggiore controversia politica, per le loro ricadute sull’ambiente, sulla stabilità macroeconomica, sul bilancio federale e sui diritti di base dei cittadini più poveri. Se anche tutti coloro che hanno interessi contrapposti a Goldman Sachs avessero la stessa capacità di spesa, avrebbero enormi difficoltà a coordinarsi per obiettivi comuni, concordare una strategia, selezionare uno o più candidati, decidere come sostenerlo.

E il risultato è che per la loro elezione i parlamentari sono debitori di pochi grandi soggetti: non tutti possono avere la notorietà di Obama, che ha fondato la sua campagna sulle micro-donazioni. Insomma, molti temono che il finanziamento pubblico, eliminando la necessità di un rapporto stretto con la società, renda i politici una casta lontana dai cittadini. Ciò di cui non si parla è che il finanziamento privato rischia di rendere i politici troppo vicini a certi cittadini.

 

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