Contributi ai partiti Uno scandalo da fermare subito

Quando ci sono di mezzo i soldi di tutti, distinguere una legge buona da una legge cattiva è facile. La prima parte dal presupposto che la natura umana è quella che è: tendenzialmente ladra. La norma migliore risolve il problema alla radice: niente torta, niente appetiti. Niente finanziamenti a fondo perduto ai partiti, nessun rischio che i tesorieri e i loro complici si mettano i soldi in tasca o li spendano in improbabili investimenti in Canada o in Tanzania. Ma, almeno in Italia, si tratta di un'ipotesi accademica. Se non si riesce a rinunciare alla torta, la buona legge si preoccupa allora di limitare i rischi con robuste dosi di trasparenza, vigilanze efficaci, certificazioni rigorose. La legge cattiva è fondata invece sulla presunzione che l'uomo, lasciato senza controlli dinanzi a grosse tentazioni, è capace di trattenere i propri istinti. I risultati sono quelli che stiamo vedendo con la legge sui «rimborsi elettorali» ai partiti. Il tesoriere leghista Francesco Belsito, il margheritino Luigi Lusi e l'udc Giuseppe Naro sono gli ultimi di una lunga serie di indagati. Ieri a Montecitorio l'argomento di discussione era chi sarà il prossimo a finire sui titoli dei giornali: molto gettonato il tesoriere di uno dei partiti più insospettabili. L'unica giustificazione che possono addurre i reprobi è proprio la legge che disciplina i soldi dei partiti: concede tanto denaro e prevede obblighi di trasparenza e responsabilità contabile prossimi allo zero. Insomma, pare fatta apposta per incoraggiare i comportamenti più indecenti.
Malgrado il nome che porta, la normativa in vigore (nata nel dicembre del '93 e soggetta a varie modifiche, l'ultima delle quali, nel 2006, garantisce soldi per cinque anni anche se la legislatura dura meno) non ha nulla a che vedere con le spese che i partiti debbono affrontare per le campagne elettorali. Qualunque sia questo esborso, a essi sono attribuiti 5 euro per ogni iscritto nelle liste elettorali della Camera. I Radicali si sono presi la briga di fare i conti: dal 1994 a oggi, a fronte di 2,7 miliardi di euro di «rimborsi» incassati, i partiti hanno dichiarato spese elettorali per poco più di 700 milioni, spartendosi così un dividendo da 2 miliardi. Si scrive «rimborso elettorale», si legge «finanziamento pubblico». E il fatto che non abbiano il coraggio di chiamarlo con il nome giusto la dice lunga.
Anche da questo punto di vista la Lega non fa eccezione. Grazie al comodo sistema in vigore, secondo le stime dei soliti Radicali, dal 1994 a oggi il Carroccio ha incassato oltre 115 milioni. Solo le elezioni politiche del 2008, calcola il segretario radicale Mario Staderini, hanno garantito al partito di Umberto Bossi entrate per 41,4 milioni di euro, a fronte di spese rendicontate pari ad appena 2,9 milioni (i bassi costi delle campagne elettorali sono il vero motivo per cui le liste bloccate piacciono tanto a tutti i partiti, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo a voce alta).
Ma il peggio dell'ipocrisia che avvolge la «questione morale» emerge nelle proposte di autoriforma sbandierate dai partiti. La formula magica che va per la maggiore è «metodo democratico». Come dice Pier Ferdinando Casini, che anche in questo caso punta a essere il baricentro dell'accordo che cambia tutto perché tutto resti com'è, «i partiti che vogliono accedere ai rimborsi elettorali e a ogni altra forma di provvidenza pubblica e indiretta devono munirsi di statuti che recepiscano il metodo democratico». Insomma, una bella mano di vernice ai regolamenti interni, qualche concessione ai luoghi comuni imperanti - quote rosa, quote giovani, apertura alle «spinte dal basso» - e tutti giù a testa bassa nella mangiatoia come prima, magari col timbrino di una società di revisione bene in vista sul bilancio (se in Borsa esiste un'aneddotica sterminata sulla serietà di simili controlli, figuriamoci cosa potrebbe accadere quando questi revisori si sedessero al tavolo con un tesoriere di partito). Peraltro, pure una riforma così blanda non riesce ade col lare: se ne parla per due o tre giorni all'insorgere dell'ennesimo scandalo, poi si sta bene attenti a non calendarizzarla sul serio. Copione che sarà ripetuto anche stavolta.
Eppure, se i partiti volessero applicare sul serio il «metodo democratico», la soluzione l'avrebbero a portata di mano. Basterebbe rispettare l'esito del referendum del 1993, quando il 90,3% degli italiani andò alle urne per dire «sì» al referendum che aboliva il finanziamento pubblico ai partiti. Un voto subito aggirato con la nuova formulazione della legge sui «contributi per le spese elettorali» che in realtà, come visto, prescinde totalmente dai costi sostenuti. Ma il «metodo democratico» è l'ultima preoccupazione dei partiti: ciò che conta davvero è che il business della politica generi profitti, cioè che le entrate - garantite dal prelievo forzoso ai danni dei contribuenti - siano ben maggiori delle uscite. In modo da disporre di un utile sostanzioso che possa essere speso senza rendere conto a nessuno. Sotto questo aspetto la legge in vigore fornisce ampie garanzie, anche perché ogni volta che è stata cambiata è stato fatto per aumentare la convenienza dei partiti, non la loro responsabilità. Ci proveranno i Radicali a far saltare il tavolo. «A partire da ottobre 2012, da quando cioè sarà possibile raccogliere le firme senza buttarle al macero», ha annunciato ieri Staderini, «torneremo nelle strade con un nuovo referendum per abolire il finanziamento pubblico dei partiti mascherato da rimborsi elettorali». Idea lodevole. Auguri sinceri.
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