Con le urne saltano i referendum. Perciò i pm sperano nella crisi

Dalla Rassegna stampa

A chi ha avuto con Silvio Berlusconi una certa dimestichezza, prima ancora dalla sua improvvisa e travolgente avventura politica, riesce sempre più difficile decifrare bene ciò che gli sta accadendo intorno, fuori e dentro il suo stesso partito. Più che un assediante, come lo dipingono i suoi vecchi e giovani avversari di sinistra, ma da qualche giorno anche amici di partito o d’area, attribuendogli nuove e più forti pulsioni contro il governo delle cosiddette larghe intese, l’ex presidente del Consiglio mi sembra francamente un assediato. E non solo dai soliti magistrati, che continuano a preparargli nuovi processi, non bastando evidentemente quelli in corso e, soprattutto, quello chiusosi d’estate a tappe forzate in Cassazione con la condanna per frode fiscale. Che rischia di costargli fra qualche settimana anche la decadenza dal Senato con una votazione in aula che i nemici vorrebbero scandalosamente imporre a scrutinio palese. Così essi mostrano peraltro, con l’ipocrita rivendicazione di un’ancora più ipocrita trasparenza, il timore di non realizzare il loro ostinato gioco nella piena libertà e autonomia dei parlamentari, sancita dall’articolo 67 della Costituzione «senza vincolo di mandato» e garantita dall’esercizio del voto segreto, specie quando è in gioco il destino di una persona.

Meno evidente e corrosivo, forse, ma non meno deludente è l’assedio che si coglie, francamente, nell’andirivieni o volare di «falchi», «colombe» e quant’altri attorno alle residenze di un leader di cui non si sa se sia più contesa l’amicizia, la protezione o l’eredità politica, cercandone l’assenso a promozioni, rimozioni, declassamenti, nuovi partiti o dependance e altre operazioni politiche. Compresa una spallata al governo, magari durante il percorso parlamentare inevitabilmente difficile di una legge di stabilità finanziaria così modesta, contraddittoria e sotto certi aspetti anche ambigua come quella appena varata dal Consiglio dei Ministri. Una spallata, quella al governo, che correrebbe il paradossale rischio di incrociarsi con l’altra che potrebbe avere interesse ad attivare Matteo Renzi, se dovesse nel frattempo vincere primarie e congresso conquistando la segreteria del Pd. Che sarebbe solo il primo tempo della sua partita per un titolo ancora più importante e ambito, sfiorato nella scorsa primavera, quando il sindaco di Firenze pensò di poter fare lui, al posto dell’allora vice segretario del partito Enrico Letta, il governo pervicacemente ostacolato da Pier Luigi Bersani.

Sarebbe veramente curioso se Renzi, indicato anche dal suo più navigato compagno di partito Massimo D ‘Alema come un segretario destinato a indebolire e non a rafforzare Enrico Letta a Palazzo Chigi, dovesse riuscire a raggiungere il suo obbiettivo di potere, e d’altro ancora, aggiungendosi o addirittura coprendosi dietro iniziative targate Pdl o a esso riconducibili, non importa a quel punto se con o senza effetti scissionistici nel campo berlusconiano. Poiché i paradossi sono spesso come le scatole cinesi, una inserita nell’altra, ad una crisi scombinata e intempestiva di governo potrebbe seguire, a questo punto non prima di febbraio o marzo dell’anno prossimo, un turno di elezioni anticipate funzionale non solo o non tanto ai calcoli o alle speranze dei «falchi» o altri volatili del Pdl, o di Renzi, o -perché escluderlo?- di un Beppe Grillo incontenibile nell’aspirazione a crescere sugli errori e sulle debolezze altrui; funzionale, dicevo, non tanto a questi scenari politici quanto agli interessi della casta giudiziaria. Che dalle elezioni anticipate, appunto, trarrebbe il vantaggio di un rinvio dei referendum sulla giustizia provvidenzialmente promossi, anzi ripromossi, da Marco Pannella e concretizzatisi grazie all’aiuto fornitogli dal Pdl nella raccolta delle firme.

Referendum che, come quelli per la responsabilità civile dei magistrati, la separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici e un più limitato ricorso al carcere cautelare, prima cioè del processo, potrebbero finalmente e concretamente segnare in caso di successo una svolta nel rapporto, oggi sbilanciatissimo a favore delle toghe, fra il potere giudiziario e gli altri nei quali si articola lo Stato. Dello sbilanciamento di questo rapporto hanno fatto le spese sin troppi cittadini comuni, politici e istituzioni per poter continuare a voltare la testa dall’ altra parte, non importa se per incivile indifferenza o ancora più incivile opportunismo, considerando cioè i vantaggi rimediabili nella lotta contro gli avversari di turno incoraggiando o solo tollerando abusi giudiziari di ogni sorta, a livello inquirente e giudicante. Uno sbilanciamento riconoscibile nella «perplessità» procurata ieri al ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri dallo spettacolo «inusuale» del presidente della Repubblica ammesso a testimoniare, su richiesta dell’accusa, al processo di Palermo sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi di una ventina d’anni fa. Trattative peraltro appena negate, o non ravvisate, da altri giudici assolvendo il generale dei Carabinieri Mario Mori, imputato anche nel processo dove dovrebbe testimoniare Napolitano, e il colonnello Mauro Obinu dall’accusa di avere favorito a suo tempo la latitanza del capomafia Bruno Provenzano.

 

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