Come raccontare l'omosessualità. Giornalisti «a scuola»

Giornalisti a lezione di antidiscriminazione. Quante volte oscuriamo le notizie se si tratta di questioni omosessuali o transgender? In radio e tv solo lo 0,2 per cento dei servizi riguarda le identità Lgbt (lesbiche gay bisessuali transgender). Eppure i pregiudizi pesano moltissimo e le ricadute nella realtà lo mostrano. L’Unar, ufficio antidiscriminazione razziale, nell’ultimo anno ha raccolto attraverso il contact center 1400 denunce di cui oltre l’11 per cento riguarda orientamento sessuale e identità di genere. Non solo. Da uno studio sui media dal 2006 al 2012 emerge la quasi totale invisibilità delle lesbiche, l’efferatezza delle aggressioni sui corpi delle persone trans, la complicità di coloro che assistono alle aggressioni in luogo pubblico e non intervengono quasi mai.
Ma come raccontare? Ancora, quando se ne parla accade spessissimo che prevalgano parole gravide di stereotipi. Nell’ambito del progetto voluto dal consiglio di Europa e organizzato da Unar e da Redattore sociale si è concluso ieri a Palermo il ciclo di quattro seminari «L’orgoglio e i pregiudizi». Un tour che ha attraversato le città partendo da Milano passando per Roma e Napoli e arrivando a Palermo. Se in molti hanno additato la fretta e l’autoreferenzialità tra le cause di un’informazione distratta e lacunosa, le principali responsabili sono state individuate nell’ignoranza e nella pressoché totale mancanza di aggiornamento. Situazione che «apre» alla comparsa sui media di una folta batteria di pregiudizi. Ma perché prevalgono le deformazioni? «In Italia abbiamo un problema culturale, pensare che il giornalismo sia avulso dall’arretratezza che registriamo negli ultimi 25 anni sarebbe troppo semplice. Le notizie lgbt compaiono soprattutto nelle pagine di gossip e di cronaca, pochissimo altrove», ha dichiarato Titti De Simone ieri a Palermo. «Noi siamo amish, viviamo dentro recinti. Viviamo nella negazione della informazione che veicola questo messaggio: attenzione in questo paese le minoranze che sono il cuore pulsante del paese non vengono raccontate. Quando parliamo della questione omosessuale in realtà parliamo della questione del potere nel nostro paese», le ha fatto eco Davide Camarrone.
Al centro delle quattro giornate (gli interventi e i resoconti sono visibili su www.redattoresociale.it) le riflessioni sui termini ormai presenti nell’uso comune ma sbagliati: «famiglie gay» letteralmente indica che tutti i componenti del nucleo sono omosessuali, invece la si usa per una coppia omogenitoriale la cui prole avrà o può avere tutti gli orientamenti sessuali possibili. Costante la confusione tra coming out e outing, quasi fantasma i termini come «gender variant», «ruolo di genere» «identità di genere», diffusa la visione vignettistica o caricaturale. In più, risulta molto presente negli operatori dell’informazione una percezione deformata del pubblico. «Quando compaio in tv so bene che dinanzi a me il pubblico è variamente composto, spesso invece parlando con colleghi o osservando il lavoro altrui mi accorgo che è come se il pubblico a casa fosse eterosessuale, salvo una nicchia immaginata a parte alla quale non ci rivolgiamo quasi mai», ha detto Alessandro Baracchini intervenendo al seminario di Roma. Che fare? Certo non redigere la colonnina delle parole sbagliate e di quelle corrette. «Occorre svolgere la funzione di lettura critica della realtà che è parte centrale del nostro lavoro, invece troppo spesso oliamo gli ingranaggi del potere - ha aggiunto ieri Davide Camarrone -. Dobbiamo indicare la necessità della transizione a una cultura nuova».
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