Cassa d'attesa

Dalla Rassegna stampa

Pare sia un record mondiale o giù di lì. Dunque: l'Alitalia e i sindacati si accordano per mandare 700 lavoratori in cassa integrazione su base volontaria. Qualcuno avanza dei dubbi: riusciremo a trovarne così tanti disposti a rimanere a casa con lo stipendio ridotto? La risposta di piloti, hostess e personale di terra è un appassionato «sì». Le richieste sfondano quota 900: il volo dei cassintegrati Alitalia è in «overbooking», con ben duecento passeggeri in lista d'attesa.

Non c'è dubbio che sull'entusiasmo dei dipendenti della compagnia di bandiera abbia inciso il trattamento privilegiato di cui godono: chi va in cassa percepisce l'ottanta per cento della paga abituale. E coloro che hanno le tempie tendenti al grigio potranno aggiungere ai quattro anni di cassa integrazione un triennio ulteriore di mobilità, per scivolare in letizia verso la pensione. Ma stiamo parlando di un mestiere prestigioso, ben retribuito e, seppur impegnativo, non paragonabile alla fatica fisica di uno scaricatore di porto. Perché allora questa fuga anticipata ed entusiasta? Per poter volare verso un secondo lavoro in nero, come sussurrano i maligni? Io so che quelli della generazione di mio padre cominciavano a morire il giorno in cui andavano in pensione. Forse esageravano nel mettere il lavoro al centro della loro vita. Ma trovo più triste che oggi lo si consideri solo una fonte (sempre più magra) di sostentamento. Una trappola da cui scappare al più presto, con il sottile egoismo di chi utilizza privilegi che saranno negati a quelli che verranno dopo di lui.

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