A Bruxelles vincono Merkel e Sarkozy

Dalla Rassegna stampa

La mancata nomina di Massimo D’Alema come Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea ci dice della debolezza dell’Italia in Europa. Ma le designazioni del belga fiammingo Herman Van Rompuy a presidente del Consiglio europeo e dell’inglese Catherine Ashton nel ruolo che si aspettava per D’Alema ci raccontano della debolezza dell’Europa di fronte a se stessa, dell’arretramento dell’Europa politica (un tempo si diceva dell’ideale comunitario) rispetto ai governi. Mai così plastica è parsa l’affermazione della rinnovata coppia franco-tedesca Sarkozy-Merkel nella scelta di Van Rompuy; così come inevitabile riconoscimento al peso politico di Londra è la scelta della Ashton.
L’Europa di Lisbona, quella che con l’entrata in vigore del nuovo trattato (il primo post allargamento dell’Unione ad Est) avrebbe dovuto dare regole nuove, più compattezza nell’immagine e più flessibilità nel funzionamento della macchina brussellese, parte dunque male. E, con tutto il rispetto per Van Rompuy e la Ashton, con due sconosciuti nei ruoli chiave. Parlando di Europa Henry Kissinger era solito ripetere la stessa domanda ironica: «Qual è il numero di telefono?», lasciando capire che alla Ue mancava un uomo o un ruolo di riferimento.
Guardando la fotografia e il curriculum del prossimo presidente del Consiglio e ministro degli Esteri europeo viene da chiedersi: quando Hillary Clinton dovrà parlare con l’Europa chiamerà Mrs Ashton o Frau Merkel?
Massimo D’Alema incassa una bocciatura che non contiene un giudizio sulla sua persona, ma che è il frutto di una candidatura troppo innaturale per le regole geometriche della politica europea. E l’ha ben riassunta il capogruppo dei socialisti europei al parlamento di Strasburgo Martin Schulz: «Ha pagato la debolezza di non avere dietro di sé un governo socialista». Il nostro governo, e Silvio Berlusconi in prima persona, si sono certamente battuti per D’Alema. I socialisti del gruppo Pse lo avevano designato all’unanimità. Le sole obiezioni erano state sollevate dai polacchi (e forse, attraverso di loro, dagli americani) e si riferivano al suo passato comunista. Ma come personale garanzia di atlantismo D’Alema poteva contare sui buoni rapporti con Bill Clinton ai tempi dell’«Ulivo mondiale» e soprattutto sul fatto di essere stato il presidente del Consiglio che aveva deciso la partecipazione italiana all’intervento armato in Kosovo.
Tuttavia quando si è trattato di decidere è parso chiaro che D’Alema non aveva chances. Il premier britannico Gordon Brown ha tenuto con convinzione fino all’ultimo minuto la candidatura di Tony Blair a presidente. Se avesse vinto, il ruolo di ministro degli Esteri sarebbe toccato a un conservatore; se avesse perso - com’è stato - questo posto era irrimediabilmente inglese. Così vanno le cose in Europa: la risultante dell’equilibrio di due fattori, il peso degli Stati e l’appartenenza a una delle due famiglie politiche, popolari-conservatori e socialisti-progressisti. D’Alema apparteneva alla famiglia sbagliata (quella socialista che inevitabilmente, respinto Blair, sarebbe stata espressa da un inglese) ed era sostenuto da un governo conservatore. Un esercizio di alta acrobazia che difficilmente poteva riuscire.
Il risultato è un sigillo alla debolezza del peso italiano in Europa e negli organismi internazionali. Abbiamo soltanto un vicepresidente della Commissione europea. Il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi è in pole position per succedere al francese Trichet alla banca europea. Ma si deciderà fra due anni. Più vicina la discussione su chi dovrà succedere al lussemburghese Jean-Claude Juncker alla guida dell’Eurogruppo. E qui ha buone possibilità Giulio Tremonti. Non è da escludere che Berlusconi abbia giocato - e perduto - la partita D’Alema per sparigliare nella politica italiana, ma soprattutto per acquistare un credito sul tavolo europeo per il suo fedele ma spesso scomodo ministro dell’Economia.
Ciò che appare davvero chiaro in questo giro è che dopo due anni di diffidenza reciproca Nicolas Sarkozy e Angela Markel hanno trovato il passo per ricostruire l’asse franco-tedesco. La cancelliera ha raccontato ieri in un’intervista a Die Zeit che nel corso del loro ultimo incontro il Presidente francese le ha regalato una copia degli appunti che il generale De Gaulle aveva preso nel primo incontro avuto con il cancelliere Adenauer nel 1958. Un cadeau altamente simbolico sul quale i due leader stanno costruendo un dialogo che ricorda molto più quelli del passato (non solo De Gaulle-Adenauer, ma soprattutto Mitterrand-Kohl) che quello recente tra Chirac e Schroeder, culminato nella rottura dei rapporti atlantici con l’amministrazione Bush. Sarkò e la Merkel intendono invece avere una via di comunicazione diretta con Washington. Le loro scelte europee lo confermano.
Ma in questa Europa più intergovernativa che comunitaria, dove sta l’Italia? Subalterno alla coppia franco-tedesca nell’epoca d’oro dell’asse, il governo guidato da Silvio Berlusconi non ha esitato a schierarsi con Blair e Aznar nell’epoca di ferro quando la vecchia Europa si è spaccata nel sostegno a Bush. E ora? La velleitaria avventura della candidatura D’Alema sembra dire che non stiamo da una parte né dall’altra.
 

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