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Come ormai tutti gli anni quando si avvicina il 2 agosto si riapre sulle agenzie di stampa e poi sui giornali la polemica sulla strage alla stazione di Bologna. C'è chi ritiene necessario rivedere quella sentenza e prospetta piste alternative che però hanno il difetto di fondarsi su indizi ancora più labili di quelli che hanno portato alla condanna di Mambro e Fioravanti. Ma c'è anche chi invoca verità completa sui mandanti rimasti impuniti. Il paradosso è che entrambe le posizioni hanno una logica. Perché se il processo è stato rifatto tre volte, con due sentenze di Appello contraddittorie, c'è un dato univoco: l'impalcatura che vedeva affacciati in un unico progetto criminale i fascisti, rivali fra loro, di Avanguardia nazionale, di Ordine nuovo e dei Nar, Licio Gelli e il suo concorrente Francesco Pazienza, la P2 e naturalmente i servizi deviati, non ha retto fin dal primo grado. Anche in questo caso l'impressione è quella di una magistratura dell'accusa volta più a una descrizione storica e di "ambiente" piuttosto che attenta a indizi e prove materiali. Così che, dopo cinque processi, le due sole condanne per strage finiscono per apparire o approssimate per difetto o un errore giudiziario.
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