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Ritorno sul tema trattato ieri e approfitto di questo spazio per scusarmi pubblicamente con Giuseppe Lo Bianco. Ieri mattina ho detto per radio che solo Repubblica continuava a seguire la polemica nella procura di Palermo sull'arresto di un mafioso che alcuni pm e il Ros dei carabinieri ritenevano avrebbe potuto condurre, se lasciato libero, alla cattura, ben più importante, di Messina Denaro. In realtà anche il Fatto se n'era accorto e l'articolo di Lo Bianco, che non avevo visto in tempo, conteneva diverse notizie. Sia Repubblica due giorni fa, sia il quotidiano di Travaglio ieri offrivano comunque al lettore la nuda descrizione dell'oggetto del contendere limitandone l'interpretazione all'uso di una parola scolpita nei rispettivi titoli: "Veleni in procura".
Lo stereotipo prevede che le divergenze di lavoro in certi uffici giudiziari, a cominciare da Palermo, debbano per forza essere velenose. Talvolta lo sono davvero ma nulla, negli articoli citati, lo fa pensare in questo caso. Rammarico, confronto acceso, perfino rabbia ma nessun veleno. E qui sta il problema. Presentare le cose in questo modo non aiuta a comprendere i termini di una divergenza ma spinge a occuparsi dei possibili avvelenatori prima ancora che dei mafiosi conclamati. La questione non è irrilevante. E non è certo la prima volta che si pone.
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