Angela: «Quell’errore giudiziario oggi consiglierebbe il silenzio»

«Il criterio dell’opportunità avrebbe consigliato il silenzio, trent’anni dopo quel processo e quell’errore giudiziario così clamoroso. No, non sono convinto per niente della nomina ad un ruolo pubblico per l’ex pm del processo al mio amico Enzo. Nessuno vuole fare oggi il processo a chi pronunciò quelle parole contro Tortora ma la saggezza avrebbe imposto il silenzio. Almeno questo garbo per la memoria».
Piero Angela vorrebbe rileggere le testimonianze contro il suo amico Enzo Tortora e quegli interrogatori trascritti con macchine Olivetti alla luce dei suoi studi più recenti sulle neuroscienze. «Vorrei farlo, per far capire di come il cervello umano legge e rilegge uomini e fatti alla luce dello specchio che riflette sempre la seconda immagine della realtà, non quella primaria ed autentica. La rilettura di quegli atti del processo, incrociando anche i dati sulle personalità degli accusatori, avverrebbe con strumenti della scienza acquisiti da pochi anni. Quindi, senza alcuna pretesa di porla nel tempo del processo».
Perché lei consiglierebbe il silenzio all’ex pm dopo l’errore giudiziario su Enzo Tortora?
«Sarebbe l’unico modo di rispettare la sua memoria. Ciò non significa che la memoria dell’ingiustizia viene cancellata o archiviata».
Chi era Enzo Tortora, in quei giorni dell’arresto, del carcere e del processo?
«Un uomo solo, inseguito dal pregiudizio di larghissima parte della stampa italiana. Lui non era molto simpatico ad una fetta del grande pubblico, anche televisivo, perché appariva e veniva descritto come un uomo affettato e lezioso. Ma Enzo non era così, era un uomo capace di grandi sentimenti, rispettoso di tutti»..
Il giudizio più ricorrente che si ascoltava in quei giorni, al di là di quelle dei magistrati?
«Un cinico "ben gli sta", come vendetta sociale di un’Italia senza pietà per un personaggio pubblico finito in manette».
Ma tanto solo Tortora non fu, perché Enzo Biagi fu il primo ad assumere una posizione garantista nella stampa italiana.
«È vero, l’assunse a seguito di una lettera appello pubblicata da Repubblica, promossa da me e dal collega Giacomo Ascheri, firmata da molti intellettuali e giornalisti italiani tra cui Giorgio Bocca, Rossana Rossanda, Lino Jannuzzi, Eduardo De Filippo».
Come coinvolse il grande Eduardo, peraltro napoletano, cioè della città dove si consumava il dramma giudiziario di Tortora?
«Lo telefonai, mi rispose con grande cortesia ed affabilità. Capì subito la battaglia di civiltà e mi disse: "Aggiungi la mia firma"».
I Radicali di Marco Pannella non si limitarono solo al discorso pubblico, poi avrebbero candidato Tortora al Parlamento Europeo...
«Sì, loro furono protagonisti di una battaglia civile con quel senso della tutela delle garanzie di libertà che in Italia, purtroppo, appare e scompare secondo la convenienza dell’attualità o, addirittura, la popolarità dei soggetti coinvolti. E questo, non per responsabilità di quanti, da minoranza civile, invitano a riflettere sui temi della giustizia».
Non crede che dietro la storia dell’errore giudiziario su Enzo Tortora si possano celare anche tentativi di buonismo garantista ad ogni costo?
«Sia chiaro, i magistrati possono sbagliare. Ed io credo anche con buona fede. Però, quando si eccede nell’invocazione del ricordo di Tortora, anche quando si tratta di inchieste per corruzione dove tutti si dichiarano sempre perseguitati, mi pare un pò eccessivo...».
Chi non si rassegna all’ingiustizia può oggi ancora rintracciare un indizio secondo il quale il sacrificio di Tortora non è stato consumato invano?
«Sì. È l’indizio di una nuova consapevolezza che mi pare attraversi anche la magistratura italiana rispetto alle garanzie di libertà».
Conviene indagare ancora il passato della malagiustizia o rimuoverlo e consegnarlo alla storia?
«Conviene ricordare, riflettere, rivedere comportamenti e gesti. Oggi, ad esempio, sarebbe impensabile assistere ad una maxiretata con 700 arresti, disposti quasi esclusivamente sulla base delle parole dei collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti. Così come bisogna ricordare che furono colleghi dei pm Di Pietro e Di Persia, quelli dell’accusa a Tortora, ad assolvere Enzo, sia pure dopo il lungo travaglio umano».
Tortora aveva costruito il suo successo professionale credendo al senso ed al valore della parole. Perché secondo lei non riuscì a convincere gli uomini che lo accusavano?
«Perché la parola dell’innocenza, in quei giorni, si perdeva nella volgarità di quella offerta dai pentiti che si esercitavano in un tiro a segno, come tragico gioco a premi sulla vita degli innocenti. Se penso alle accuse di tale Margutti, un pittore che in America si era fatto perfino fare dei francobolli con il suo volto, o Gianni Melluso, il bello, che poi trent’anni dopo si scuserà, o ancora Giovanni Pandico, o peggio, Pasquale Barra detto ‘o animale, o quel Barbaro che pretendeva dalla Rai i soldi peri centrini spediti a Portobello, roba del tutto ignara ad Enzo. Ma come si fa a mandare in galera un uomo con l’accusa di camorra? E senza verificare nulla?».
Quale immagine è rimasta più impressa nella sua memoria di quei giorni drammatici per Tortora?
«Quando, fingendomi collaboratore dell’avvocato Raffaele Della Valle, entrai nel carcere di Bergamo dove Enzo era recluso. Lo abbracciai. Lui si sedette al di là del tavolo di quella sala colloqui e cominciò a battere i pugni dicendoci: "Io non sono innocente, sono estraneo". Le sue grida non raggiunsero gli uomini che avevano tra le mani il suo destino».
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