Anche Pantalone s'è stancato

Lo dice la parola stessa: "tesoriere" è chi possiede un tesoro. E perché mai il tesoro dei tesorieri di partito d dev'essere fatto coi soldi nostri? Non importa se quel capitale, accumulato negli anni, venga speso bene oppure male, anche se la cronaca di questi giorni non lascia molti dubbi al riguardo: della caccia al tesoro si sta occupando la magistratura in diversi casi.
L'importante è che in futuro mai più un solo euro provenga dalle tasche dei contribuenti. L'avevamo già detto, peraltro, a furor di popolo. Il 90,3 per cento degli italiani aveva votato "sì" all'abrogazione del finanziamento pubblico alle forze politiche già diciannove fa, nel 1993. A quel referendum, tra l'altro, il quorum era stato molto alto, il 77 per cento degli elettori vi aveva partecipato, a conferma del rilievo che i cittadini attribuivano alla materia. C'è di più.
Si tende a dimenticare che quindici anni prima, nel 1978, i radicali avevano promosso un quesito analogo. Ma allora il popolo sovrano salvò la legge che erogava denaro pubblico ai partiti col 56,4 per cento dei consensi (contro il 43,6 che voleva, invece, abolirla). Perciò il referendum del 1993 è due volte significativo: per la quantità impressionante di voti contro il finanziamento pubblico, e perché gli italiani cambiarono idea rispetto alla volta precedente.
E quindi il loro punto di vista doveva essere considerato alla stregua di un principio non aggirabile con la furbata dell'uso di parole diverse in una nuova legge: "rimborsi elettorali", anziché "contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici".
Sarà questo, allora, lo spartiacque vero tra vecchia e nuova politica, il confine tra partiti che vorranno ancora conservare quel che i cittadini hanno solennemente bocciato nel 1993 e partiti che invece rinunceranno ai quattrini del Pantalone pagante. Gli italiani sono stati raggirati, il loro responso ignorato, ma la nuova politica, se vorrà essere "nuova" davvero, dovrà ricollegarsi a quel verdetto del 1993 così vergognosamente calpestato.
Per ora sembrano in pochi ad aver risposto all'appello. Oltre ai radicali che avevano visto giusto, solamente il movimento di Beppe Grillo ha finora rifiutato di utilizzare il denaro dei cittadini.
E tra i grandi partiti soltanto il Pdl giura che d'ora in avanti farà ameno di farsi pagare le campagne elettorali coi soldi degli italiani.
Di più: assicura che farà di questa scelta una novità della sua annunciata trasformazione politica (anche nel nome).
Ma dagli altri arrivano timidi segnali. Per ora alcuni rifiuteranno solo una fetta del finanziamento in arrivo (così hanno promesso la Lega e l'Idv), mentre a sinistra si tende a considerare il sostegno economico dello Stato come un cardine per poter affrontare "alla pari" le competizioni politiche.
Pura illusione: così non è più da troppo tempo. Con ogni evidenza, la politica può fare da anni quel che vuole dei suoi tesoretti pubblici, cioè costruiti coi soldi nostri senza alcun controllo degno di questo nome. Non è ammissibile, allora, che l'originaria e pur assai discutibile ragione del finanziamento statale, ossia il dover pagare noi tutti i manifesti, i volantini, i comizi di questo o quel partito, si sia trasformata, nel migliore dei casi, in rimborso di cene elettorali o di viaggi. Tutte cose che dovrebbero rientrare nelle spese personali di chi si candida, o del suo partito.
Non ci prendano più in giro: se vogliono mangiare, girare per l'Italia, mobilitarsi, lo facciano coi soldi loro e con il ricavato di loro iniziative politiche, tesseramenti, contributi volontari.
Pantalone non ci sta più.
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